Al quarto piano dell’Istituto nazionale di genetica molecolare, a due passi dall’Università degli Studi di Milano, Elena Cattaneo gode di una vista singolare. Da una parte il noto panorama milanese, con la maestosità del Duomo e la sfrontatezza della Torre Velasca, dall’altra l’ignoto dell’infinitamente piccolo, le cellule, le molecole e il Dna che la scienziata e la sua squadra studiano senza sosta per trovare una cura alla malattia di Huntington.
Da più di trent’anni Elena Cattaneo, nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel 2013, dedica le sue ricerche a questa patologia rara. Per lei è stato un colpo di fulmine in terra americana, quando a Boston ascoltò una conferenza di Nancy Wexler, paladina degli studi su Huntington. «Di Nancy mi affascinò tutto», ricorda, «fu grazie a lei che compresi per la prima volta che ricerca e studio insegnano a inseguire obiettivi importanti per tante persone».
Da allora la ricercatrice non si è mai fermata: ha pubblicato su importanti riviste internazionali, vinto riconoscimenti, coordinato progetti europei e all’impegno di scienziata ha unito quello di divulgatrice. Nel 2005 ha sostenuto la campagna referendaria per abrogare alcuni articoli della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, che impediva agli scienziati di studiare le cellule staminali embrionali inutilizzate, invece così preziose per la ricerca su malattie neurologiche, proprio come Huntington. Cattaneo è stata anche una dei primi scienziati a condannare il metodo Stamina e, più recentemente, a contrastare il riconoscimento dell’agricoltura biodinamica. Una paladina del metodo scientifico in un’era dove troppo spesso i fatti della scienza vengono contrapposti alle opinioni.
Senatrice Cattaneo, com’è dedicare gran parte della propria vita allo studio di una malattia?
«È una sfida quotidiana che porta a percorrere molte strade. A volte parallele, altre volte opposte. Nessun percorso si può escludere a priori. Dedicarsi allo studio di una malattia vuol dire accettare tutto questo anche per i pazienti e le loro famiglie».
Nel laboratorio di Milano cercate una cura per la malattia di Huntington. I risultati più importanti ottenuti?
«Abbiamo scoperto che il gene che causa la patologia è molto antico, comparso per la prima volta circa un miliardo d’anni fa. Ci siamo chiesti perché l’evoluzione non lo avesse eliminato, visto che poteva essere pericoloso per l’uomo quando acquisisce quella mutazione. Dopo una ricerca durata sette anni abbiamo scoperto che, nella versione non mutata, quel gene sembra avere importanti funzioni per lo sviluppo del nostro cervello».
Cosa pensa quando finisce di studiare le cellule e alza gli occhi sulla realtà quotidiana?
«Che c’è ancora tanto da scoprire. È questo che più mi affascina della scienza: la possibilità di studiare ciò che non è noto e di condividerlo. Per ogni nuova conoscenza, però, ci sono chili di prove da raccogliere, rendere pubbliche, verificare».
Ciò che non era noto, il coronavirus, in questi anni ci ha spaventato. E abbiamo assistito in diretta alla raccolta di prove.
«Le normali dinamiche scientifiche come il confronto, da punti di vista differenti, su fenomeni ancora da studiare hanno generato confusione. Per la prima volta nella storia dell’umanità questo confronto si è svolto sotto i riflettori, in piena emergenza, di fronte a un pubblico non preparato a coglierne il valore».
La confusione è aumentata con lo spazio mediatico concesso a pareri non scientifici, come quelli No Vax. Come si fa a spiegare che escludere queste voci dal dibattito scientifico non è censura?
«Talvolta si applica alla scienza lo stesso schema usato nei talk show politici, dove si confrontano due posizioni in par condicio. Così si cade nel tranello del “false balance”: dati e congetture vengono messi sullo stesso piano e il ciarlatano viene presentato come voce legittima da contrapporre a quella dello scienziato. Un fatto scientifico può essere messo in discussione se emergono nuovi dati, ma non si può pensare di proporre per ogni argomento un punto di vista contrapposto, se privo di quei dati. Un vaccino o è efficace o non lo è. I dati vanno confrontati con i dati, le opinioni con le opinioni».
Secondo lei i cittadini hanno perso fiducia nella scienza dopo la pandemia?
«Inizialmente c’è stato un innamoramento generale, spinto dalla paura e dall’emergenza. Poi l’impazienza, unita alla poca conoscenza del metodo e dei tempi necessari per capire un virus ancora ignoto, in alcuni ha generato un rifiuto».
C’è anche questo alla base della cosiddetta esitanza vaccinale?
«C’è una sottovalutazione dei rischi e l’errata sensazione di invulnerabilità, generata da decenni di benessere. Tutto deriva anche da continui errori di valutazione del nostro cervello. I neuroscienziati cognitivi spiegano che non si è ancora adattato alla modernità ed è propenso a reagire alle novità in modo irrazionale, amplificando i rischi e sottovalutando i benefici. Il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha un osservatorio sull’esitanza vaccinale che monitora la campagna di vaccinazione antiCovid-19 da settembre 2020. I dati dicono che nei primi otto mesi dell’indagine gli esitanti sono diminuiti dal 33 all’11%. Significa che i dubbi possono essere superati se si instaura un clima di fiducia».
«Io sento che la politica diffida della scienza. E la scienza della politica per lo stesso motivo», disse nel suo primo discorso in Senato.
«Con la pandemia la politica ha sperimentato un nuovo rapporto con la scienza. E sono emerse le difficoltà di dialogo tra realtà che non si conoscevano. Il nostro Paese soffre della cronica mancanza di luoghi stabili dove scienza e politica possono confrontarsi, al di là delle emergenze. Confido che il Parlamento consideri l’opportunità di creare uffici stabilmente dedicati all’approfondimento di temi scientifici come avviene in altri Paesi europei».
Una volta ha scritto che le scelte sulla ricerca scientifica dovrebbero basarsi sui fatti, non sulle ideologie. Quali scelte di questo tipo sono state fatte in Italia?
«Quella sulle staminali embrionali umane, ad esempio, è una contrapposizione ideologica priva di base scientifica. La famosa legge 40 impedisce la derivazione di nuove linee di staminali embrionali da embrioni “avanzati” da fecondazione in vitro, che invece vengono congelati e distrutti, ma permette di prendere le stesse linee dall’estero. Non le possiamo produrre ma le possiamo importare. Nel 2009 impugnai, chiedendone l’annullamento, un bando ministeriale che impediva di proporre ricerche basate su queste cellule».
Nel 2013 è stata uno dei primi scienziati contro la decisione del Parlamento di continuare la sperimentazione clinica del metodo Stamina. In quel caso su che base si fondava la decisione politica?
«Per noi scienziati fu subito ovvio che si trattasse di una poltiglia priva di beneficio. Non capivamo come un ospedale pubblico (quello di Brescia), politici e opinione pubblica potessero credere all’efficacia di una pozione sulla base delle dichiarazioni di chi la sponsorizzava. Costernati, cominciammo a lottare per affermare i fatti. Ricordo notti insonni con un gruppo di colleghi per decidere come intervenire, a chi rivolgerci, raccogliendo un’infinità di dati e testi. Nel 2013 arrivò, inaspettata, la nomina a senatrice a vita. Il mio primo impegno fu proprio su Stamina. La vicenda è finita con condanne penali per i promotori di questo cosiddetto metodo».
Un anno fa è stata l’unica a opporsi alla legge che equiparava biologico e biodinamico. Secondo lei era come mettere sullo stesso piano realtà e magia, come si rischiava di fare legittimando il metodo Stamina. Che minaccia arrivava dal biodinamico?
«L’agricoltura biodinamica promuove pratiche esoteriche e preparati da cospargere sui campi in dosi omeopatiche per permettere alle forze cosmiche di aumentarne la fertilità. Saremmo stati il primo Paese in Europa ad aprire le porte della legislazione al pensiero magico: sei tra le maggiori società scientifiche italiane del settore agricolo hanno definito questa eventualità “inaccettabile”. Fortunatamente, la Camera ha poi eliminato quell’equivalenza».
Si sente una delle poche paladine del metodo scientifico in Parlamento?
«Sono più semplicemente una scienziata in Parlamento».
Qual è la sua posizione rispetto a pratiche mediche non convenzionali, da cui la gente tutto sommato trae beneficio?
«Rimanendo all’omeopatia che conosco meglio, tutte le evidenze sperimentali parlano di un “beneficio” pari a quello di un placebo. Negli anni scorsi l’omologo francese del nostro Istituto Superiore di Sanità ha condotto un’analisi su oltre 800 studi scientifici per poi concludere, nel 2019, che i prodotti omeopatici non hanno dimostrato un’efficacia sufficiente a giustificarne il rimborso. Così la Francia, sebbene patria della multinazionale di prodotti omeopatici Boiron, è arrivata alle inevitabili conclusioni di inconsistenza farmacologica. La medicina ha basi scientifiche che crescono e si perfezionano grazie a un robusto corpus di prove. Di alternativo a questo c’è solo la non-medicina, rischiosa se usata al posto di trattamenti scientificamente validi».
Il suo ultimo libro si intitola Armati di scienza. Chi si deve armare e perché?
«Il titolo suggerisce una possibilità che appartiene a tutti. E cioè quella di farci forza della scienza, di utilizzare il suo metodo come uno strumento per affrontare le sfide quotidiane, individuali e collettive. Significa prima studiare, approfondire, capire, confrontare, appellarsi alla logica. Poi decidere».
Armati di scienza, cosa dovremmo dire a chi di questi tempi esprime un pensiero No Vax?
«Ascoltare le ragioni è il primo passo per trovare gli argomenti per superarle. Tra quelle ascoltate in questi mesi, il timore di fare da cavia a un rimedio realizzato in fretta. In realtà ci siamo avvalsi di vent’anni di precedenti ricerche e per i vaccini anti-Covid le aziende hanno coinvolto campioni molto più ampi rispetto alle altre sperimentazioni cliniche, nell’ordine di oltre 30-40 mila persone (di solito sono poche migliaia). La sfida comunicativa della scienza, oggi, è consolidare la fiducia e la familiarità col metodo scientifico fino a farle diventare stabili. Un obiettivo che si può raggiungere solo continuando a presidiare lo spazio pubblico».
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