In Italia non si fanno più figli. Secondo i dati Istat, nel 2020 con 404.104 bambini nati è stato superato il record negativo toccato nel 2019 (-3,8%, e quasi -30% rispetto al 2008) e quest’anno si rischia di vedere dagli 11 ai 20.000 bebè in meno in confronto al 2020, tanto che il premier Mario Draghi ha lanciato l’allarme: «Un’Italia senza figli è un’Italia che non crede e non progetta. È un’Italia destinata lentamente a invecchiare e scomparire». E la situazione mondiale non è migliore. Secondo uno studio pubblicato lo scorso anno da The Lancet, nel 2050 saranno 151 i Paesi sotto il livello di sostituzione (una media di due figli per ogni coppia) e nel 2100 saliranno a 183, cioè quasi la totalità (196). Estendendo la stima al 2200, l’indice scenderà a 1,75, facendo prevedere un collasso demografico planetario.
Il disagio economico di molte coppie è sotto gli occhi di tutti, ma siamo sicuri che sia solo il conto in banca traballante a frenare la volontà di fare figli? Un’inchiesta del New York Times condotta su giovani adulti ha rivelato come il 42% eviti di diventare genitore perché vuole più tempo libero. Daniela Galliano gode di un osservatorio privilegiato in quanto ginecologa, ostetrica e specialista in medicina della riproduzione, autrice di numerosi testi scientifici e studi internazionali, nonché direttrice della clinica romana dell’Istituto Valenciano de Infertilidad (IVI).
Dottoressa, non è che la donna oggi sia più orientata sulla carriera che sulla maternità?
«Il ruolo della donna nella società fortunatamente è cambiato, non è più soltanto figlia o moglie, vergine o madre. Oggi abbiamo la consapevolezza che non è la maternità a definire il nostro valore, che siamo donne complete anche se non abbiamo figli. Possiamo anche essere madri, ma non solamente quello. Viviamo in un’epoca nella quale, quando siamo più fertili (cioè tra i venti e i trent’anni d’età), spesso stiamo ancora studiando o non abbiamo una posizione lavorativa sicura e ben retribuita, o ancora non abbiamo un partner fisso o che condivida lo stesso desiderio di avere un bambino. E, poi, forse è venuta a mancare la fiducia nel futuro. A tutti i livelli, esistenziale, professionale, persino ambientale. Così, quando poi, a un certo punto della tua vita, uno di questi fattori cambia e decidi che vorresti avere un bambino, dai per scontato che avrai un figlio. E quando non riesci ad averlo, ti senti privata di qualcosa che sembra assolutamente naturale. Desiderare un figlio e non riuscire a concepirlo è una tra le esperienze più dolorose che una donna (o una coppia) deve affrontare. La Procreazione medicalmente assistita (PMA) ci dà una mano e può arrivare ad avere, a seconda delle tecniche, un 70% di successo, ma rispetto alla vita non c’è – fortunatamente, forse – certezza».
Lei è una donna in carriera, eppure a un certo punto ha sentito il desiderio di maternità.
«Non siamo nate per essere madri, la maternità è uno dei tanti ruoli che possiamo avere nella vita. Quando inizi a sentire un desiderio di continuità, felicità, dedizione, applicazione, voglia di futuro, capisci che sei pronta (anche) per quel ruolo. Così è successo a me. Anni prima avevo crioconservato, cioè congelato, i miei ovuli, cosa che consiglio a tutte le ragazze per “congelare” un’esperienza così emotivamente importante che magari si desidera di fare, ma che non ci si può concedere in quel momento della propria vita. Per me è stato facile, è il mio lavoro, ma purtroppo si parla ancora troppo poco dell’esistenza di questa tecnica per preservare la fertilità anche in seguito a patologie oncologiche. La chemioterapia, infatti, cura dal tumore, ma purtroppo lascia sterili».
Quali politiche bisognerebbe attuare in Italia per prevenire il collasso demografico?
«Si deve sensibilizzare l’opinione pubblica e in particolare i giovani attraverso campagne d’informazione continuative sulla possibilità di donare i propri gameti e su altre problematiche relative all’infertilità, come le malattie sessualmente trasmissibili o il grande impatto dell’età sulla fertilità femminile. Si dovrebbe parlare di questi temi nelle scuole per far sì che le ragazze vadano dal ginecologo e i ragazzi dall’andrologo, così da far crescere adulti informati che sappiano come prendersi cura della propria salute e fare scelte genitoriali consapevoli. Invece, in Italia non c’è neanche il tentativo di promuovere la donazione di gameti, per cui le cliniche italiane fanno ricorso alle banche estere. Il compito di promuovere la cultura della donazione è affidato a noi medici. Avete mai visto in televisione pubblicità progresso su questi temi?».
In futuro il numero di bambini nati con la PMA supererà quello dei concepiti naturalmente?
«Dal 1978, in cui per la prima volta una bambina è nata grazie alla fecondazione assistita, più di otto milioni di bambini sono stati concepiti grazie alla PMA. Oggi in Italia il 3,2% dei bambini è nato con la PMA e in alcuni Paesi europei questa quota raggiunge il 5%. Sicuramente sono numeri destinati ad aumentare in futuro, sia per il continuo innalzarsi dell’età in cui noi donne cominciamo ad avere figli sia per lo sviluppo tecnologico che sarà sempre maggiore, senza, però, superare la percentuale di bambini concepiti naturalmente».
Appunto, quali saranno le future prospettive della PMA? In linea teorica un giorno si potrà arrivare anche all’inquietante possibilità di procreare figli «su misura», dal sesso al colore di occhi e capelli?
«Ci stiamo concentrando sulla messa a punto di nuove tecniche anti-age per ringiovanire le ovaie, con un’iniezione di mitocondri o con cellule staminali del midollo osseo. Per il resto, le leggi sulla PMA sono molto rigide in materia di eugenetica: né le caratteristiche fisiche dei donatori né il sesso del nascituro si possono scegliere. La donazione, inoltre, deve essere anonima, per cui chi riceve gameti non può conoscere l’identità dei donatori, e viceversa. La vita non è certa neanche con le tecniche che oggi la scienza ci mette a disposizione. Se così non fosse, allora per ovviare alla crescita zero potremmo costruire la vita dei bambini. E, invece, no, noi non siamo un’industria dei bambini né mai lo saremo: siamo medici a disposizione e supporto della genitorialità, che oggi si declina ormai in una molteplicità di contesti diversi».
La PMA è già oggi spesso e volentieri associata all’idea di poter rimanere incinta anche a un’età avanzata.
«Certo, però le donne di 40 o 50 anni di oggi non sono le stesse dell’epoca delle nostre nonne. Hanno uno stile di vita, un atteggiamento e una consapevolezza diverse e, inoltre, vivono più a lungo degli uomini. Quindi, anche il concetto di età avanzata è relativo e destinato a cambiare. Con questo non voglio dire che si debba incentivare la maternità over 40, ma semplicemente che i 40 non sono più la “fine di tutto’’, come diceva disperata Meg Ryan in Harry ti presento Sally».
In Italia la legge che disciplina i trattamenti di PMA è la numero 40 del 2004. Quali sono ancora le criticità da risolvere, anche in raffronto ad altri Paesi?
«Dal 2004 a oggi, la legge 40 è stata modificata in itinere da pronunce della Corte Costituzionale che ha progressivamente ravvisato delle incongruenze o, meglio, delle contraddizioni rispetto alla nostra Costituzione dei diritti. Ma diventa sempre più urgente risolvere alcune criticità ancora esistenti per promuovere la prevenzione e la ricerca scientifica. Il divieto di utilizzo degli embrioni sovrannumerari per fini di studio, sperimentazione e ricerca rappresenta una fortissima limitazione per il progresso scientifico e, da un punto di vista etico, sminuisce il valore di questi embrioni, destinati a giacere inutilizzati per sempre nelle cliniche italiane. In Spagna o negli Usa la legislazione vigente permette di donare gli embrioni eccedenti dei trattamenti di riproduzione assistita ad altre coppie o donne che possano averne bisogno. Se pensiamo a un’embrione come a una vita, non è molto più grave che questa vita non nasca e abbia un destino per sempre sospeso?».
Lei la pensa così?
«Io non penso che un embrione sia vita, ma che sia una vita in potenza e che non abbia lo stesso valore di un embrione che sia già impiantato nel corpo di una donna. Tuttavia credo nella ricerca scientifica, che questi embrioni congelati non potranno mai aiutare, ad esempio, per curare malattie. Per questo ritengo che la legge italiana che regola la PMA non sia efficace e vada ripensata adeguandola agli standard del resto dell’Europa, dove persino la cattolica Spagna, che nell’immaginario collettivo è il Paese con la percentuale di fedeli praticanti più alta d’Europa, non ha rinunciato a riconoscere la opportunità e la libertà di poter accedere alla PMA anche per le single e le coppie di donne omosessuali».
Anche in Francia l’Assemblea nazionale ha recentemente approvato l’accesso alla PMA per tutte le donne. Il presidente della Conferenza episcopale transalpina, l’arcivescovo di Reims Éric de Moulins-Beaufort, ha parlato di «trattamento dell’essere umano come un materiale che può essere manipolato ed eliminato». Nel 2021 è ancora così profondo il fossato tra scienza e religione?
«Purtroppo sì. Il mondo conservatore cattolico ritiene che ci sia una relazione negativa tra il numero dei genitori o il loro orientamento sessuale e la crescita dei figli. Anche in questo caso dovremmo imparare dagli studi condotti in Paesi diversi dal nostro e con grande esperienza in materia, che ci mostrano come i bambini nati con diversi metodi di procreazione assistita in famiglie monoparentali e omogenitoriali non sono assolutamente diversi dagli altri né presentano particolari problemi psicologici o relazionali. La scienza ci insegna a valutare in maniera obiettiva gli eventi e a fare affermazioni basate sui fatti. La mia è un’osservazione oggettiva, non a favore o contro qualcuno.
Chi sostiene che estendere la PMA a donne single e LGBTI sia un errore può continuare a farlo, se questo lo fa sentire meglio, ma almeno deve sapere che, in base alle ricerche condotte da psicologi e psichiatri internazionali, gli unici problemi psicologici che questi bambini riferiscono derivano dalle discriminazioni del mondo esterno, quello scolastico, burocratico, sociale. Quindi, i benpensanti dovrebbero proteggere i bambini nati al di fuori della famiglia tradizionale, sui quali lanciano l’allarme, partendo proprio dal non discriminarli. Personalmente provo grande ammirazione per nazioni come la Spagna o la Francia le quali, mettendo sullo stesso piano le donne con o senza partner, evitano loro di recarsi all’estero per iniziare una gravidanza che – altra ipocrisia della nostra legge – da noi non possono cominciare però, possono, poi, portare a termine. Finché sarà in vigore questo divieto, tra l’altro, le donne che ne hanno facoltà andranno all’estero, mentre le altre saranno costrette a rinunciare alla maternità».
Tra i suoi pazienti ha o ha avuto cattolici praticanti? Le hanno avanzato dubbi?
«Sì, spesso. Rispetto le loro ragioni di fede e li invito sempre a riflettere sul fatto che il fine ultimo dei programmi di PMA è qualcosa che ancora oggi, dopo tanti anni, riesce sempre a emozionarmi: la nascita di una nuova vita. Un qualcosa non in contrasto con quello che la religione dovrebbe tutelare».
Qual è il caso più particolare che ha dovuto affrontare?
«Quello in Spagna di una donna che aveva perso il marito in un incidente poco prima che utilizzassimo il suo seme crioconservato. Non è stato possibile trasferirle gli embrioni, pertanto non ha potuto portare a termine il suo sogno di avere una gravidanza con l’uomo che amava, perché questi prima di morire non aveva espresso il consenso di utilizzare il suo seme davanti a un notaio, come chiede la legge spagnola. Mi domandai a lungo quali fossero i limiti tra ragione giuridica e ragione morale».
Veniamo alla pandemia in corso. Il Sars-CoV-2 ha effetti negativi sulla fertilità femminile?
«Uno studio condotto presso le cliniche IVI in Spagna su pazienti che hanno avuto e superato il coronavirus ha dimostrato che la malattia non compromette la fertilità. In particolare, prendendo in considerazione i livelli di un marker di riserva ovarica, l’ormone antimulleriano (AMH) prima e dopo il Covid, lo studio ha dimostrato che la malattia non influisce sullo stato della riserva ovarica femminile. Si può concludere che le possibilità di successo di un trattamento di PMA rimangono intatte anche dopo aver contratto il Covid-19».
I vaccini possono avere effetti indesiderati sulla gravidanza?
«Per i vaccini di tipo mRNA l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) certifica che gli studi sugli animali non hanno mostrato effetti dannosi. Tuttavia, i dati relativi all’uso di questi vaccini in donne in gravidanza sono limitati, quindi, per avere una risposta definitiva, dovremo attendere un follow-up che probabilmente durerà anni. Però è rassicurante guardare, ancora una volta, che cosa è successo in Paesi con maggiore esperienza del nostro, come gli Stati Uniti, dove oltre 120mila donne gravide sono state vaccinate contro il Covid-19 senza particolari problemi né per loro né per i futuri bambini. Tenete presente che i vaccini a mRNA non contengono il virus e non interagiscono con il DNA umano».
Perché ha scelto di divenire prima medico, per, poi, specializzarsi in ginecologia e ostetricia fino a dedicarsi alla Procreazione medicalmente assistita?
«Decisi quando avevo otto anni di diventare medico, perché così pensavo – in maniera infantile, mi resi conto parecchi anni più tardi – che avrei potuto curare una persona alla quale ero molto legata. La scelta della specialità in ginecologia arrivò successivamente, perché tutto ciò che riguarda il mondo femminile, dalla salute al cosiddetto “tetto di cristallo”, mi appassiona da sempre. Ci sono temi che mi fanno accendere come un fiammifero. Michelle Obama, Emmeline Pankhurst, Malala, Kamala Harris, Gloria Allred sono alcune tra le donne incredibili a cui vorrei che mia figlia si ispirasse. Amo e stimo allo stesso modo le mie pazienti quando si sentono rivolgere da parenti o sconosciuti la lista infinita di domande e commenti sulla mancata maternità: “Non sapete cosa vi perdete”, “Non accanitevi”, “Soltanto chi è mamma può capire”… Le parole dovrebbero aiutare a sradicare il pregiudizio sociale che ancora avvolge il tema della maternità o della mancata maternità, non a fomentarlo».
Dove nasce la scelta di proseguire la sua formazione scientifica in Spagna e Stati Uniti dopo la laurea all’Università di Torino?
«Frequentando il quinto anno di medicina in un’università spagnola fui colpita dall’ambiente ospedaliero giovane e dinamico, l’opposto del nostro sistema tipicamente baronale. Sapevo di voler intraprendere una specializzazione chirurgica e avevo visto gli specializzandi spagnoli operare, fin dal primo giorno, diversamente da quello che avveniva in Italia. Così sono tornata in Spagna. Dopo aver conseguito la specializzazione in ginecologia, il dottorato di ricerca e la successiva specializzazione in medicina della riproduzione, ho continuato i miei studi a New York – nello stesso ospedale dove, anni dopo, ho partorito mia figlia – e ho lavorato a Barcellona presso lo stesso istituto di cui ora dirigo la sede di Roma».
Vede un futuro sempre in Italia o di nuovo all’estero?
«Sono tornata in Italia cinque anni fa, appena necessari per adattarmi a una città stupenda ma complessa come solo Roma sa essere. Per ora il mio futuro è qua, anche se ogni tanto sogno di ritornare a vivere a Barcellona per rivedere il mare. Magari un giorno lo farò».
Nel suo libro, Quanto ti vorrei, racconta che lei stessa ha usufruito della PMA. Come lo spiegherà a sua figlia?
«A Sofia racconterò la verità. Grazie a un test di screening genetico non obbligatorio – ma che consiglio di fare ai pazienti quando stanno cercano di avere figli – scoprii che sia io che mio marito eravamo portatori sani della policistosi renale. Mentre mi sottoponevo a una fecondazione in vitro con diagnosi genetica pre-impianto degli embrioni, pensavo che il mio fosse un destino bizzarro. Poi compresi che, in realtà, si trattava di un’occasione. Proust diceva di diffidare dei medici perché pensano di capire come funziona il corpo, anche se la loro conoscenza non ha avuto origine da alcuna sofferenza fisica. Ora so che le mie difficoltà hanno avuto un senso. Credo che il dono che inaspettatamente ho ricevuto dalla vita si possa definire capacità d’immaginarmi al posto dei miei pazienti».
Nota ancora che le sue pazienti provano imbarazzo a rivelare di aver fatto ricorso alla PMA?
«Sì, purtroppo. Lo noto anche sui social. Le persone che hanno fatto ricorso alla PMA spesso non lo dicono per paura del giudizio da parte di chi, non conoscendo minimamente le tecniche e il vissuto delle coppie costrette a ricorrervi, ritiene che debba essere la natura a decidere quando, come e se far arrivare figli. Ma meno se ne parla, più ci si sente soli. Ci sono 700.000 persone che stanno provando ad avere figli e che non ci riescono per varie cause, alcune delle quali, però, sarebbero state prevenibili o diagnosticabili precocemente se solo ci fosse stata più consapevolezza del problema. La vera cura per l’infertilità è parlarne. E allontanare chi si permette di giudicare un percorso così intimo senza averne il diritto.
Ad esempio, una mia paziente ha subito un’isterectomia a causa di un tumore. Essendo il trapianto di utero una tecnica ancora in via di perfezionamento, l’unica strada percorribile è quella della surrogazione uterina, vietata, però, in Italia. Se la mia paziente fosse stata statunitense, avrebbe potuto diventare mamma, poiché negli Usa questa tecnica è legale. Allora perché dobbiamo giudicare quelle 10.000 donne che per malformazioni uterine o tumori vorrebbero usufruirne grazie alla scelta altruistica, libera e autonoma di un’altra donna? Sono contraria a qualsiasi forma di sfruttamento della donna, ma mi chiedo se lo sfruttamento sia lasciare che una cosa si consumi al buio, oppure darne evidenza stabilendo dei diritti e dei doveri. Grazie all’Associazione Luca Coscioni è stata depositata in Parlamento una proposta di legge sulla gravidanza solidale che spero possa dare voce a tutte le coppie che chiedono alternative al “turismo dei diritti”».
Ha dato vita anche a una onlus, A mano A mano, per sostenere donne e bambini in difficoltà.
«Volevo aiutare piccoli nati con disabilità, perché mi sentivo in debito verso di loro, visto che col mio lavoro posso contribuire alla nascita di bimbi sani. Il nome della onlus mi è venuto in mente ascoltando la canzone di Rino Gaetano: non sapevo dove sarei arrivata, ma sapevo di voler portare avanti, a mano a mano, progetti di solidarietà per donne e bambini con difficoltà. Ho aperto una casa di accoglienza per bambini costretti a sottoporsi a cure oncologiche negli ospedali romani, in particolare il Bambino Gesù. Il prossimo progetto è aprire un consultorio ginecologico pro-bono per donne immigrate e vittime di violenza. Ma in contemporanea, in collaborazione con Fondazione IVI Italia e i centri IVI di Roma, ne stiamo portando avanti anche uno di aiuto nei confronti delle donne afghane, mettendo a disposizione le nostre case-famiglia».
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