«Da sette anni soffro di fotofobia, una sorta di intolleranza neurologica alle fonti di luce intense. Paradosso per un regista come me, abituato a lavorare con la luce, cioè con la materia di cui è fatto un film, l’ingrediente fondamentale di ogni fotogramma! E paradossale per una persona socievole, che negli anni 80 del dopo Franco e della nuova democrazia in Spagna ha vissuto totalmente all’aperto, in senso letterale e metaforico, godendo della libertà della natura umana e fisica, sempre fuori con gli amici.
Ebbene, da sette anni la mia vita è diventata l’opposto di allora. Sono costretto a starmene chiuso in casa quando non lavoro, con le serrande abbassate o le tende tirate, per far entrare il sole il minimo possibile. Leggo tantissimo e mi guardo almeno un film in dvd ogni giorno. In casa. A me che piaceva, invece, andare al cinema due o tre volte a settimana. Ma non posso più compiere questo rito magico, il grande schermo mi crea problemi. Anche perché soffro di emicrania cronica. Passo la maggior parte del mio tempo nel soggiorno o nello studio, tra quattro mura, vedo poche persone, e credo che questa mia nuova condizione, questo entrare dentro me stesso, questo scavarmi dentro, si siano riflessi nei miei ultimi film.
Eppure quando lavoro sto meglio. Anzi, posso dire che il set mi abbia salvato la vita. Non riesco a immaginarmi senza scrivere o girare una storia. È buffo, o forse tragico: nei miei ultimi tre film ho dovuto portare sempre occhiali da sole e cappelli a tesa larga, ridicolissimi perché la mia testa non è adatta a indossare un copricapo! Ho girato quei tre film con il mal di testa, ma quando mi concentravo sul lavoro, sulla scena da preparare, sulla sequenza da realizzare e l’operatore da istruire, il dolore passava in secondo piano, quasi scompariva.
Invece, se sto in albergo ad aspettare l’autista che mi deve portare sul set, soffro di orrende emicranie. E guai se la luce del sole sfiora i miei occhi. Ma quando poi giungo fra i miei attori e mi concentro nella regia, mi sento meglio, la sofferenza si fa sopportabile, provo del sollievo. Il dolore mi aspetta di nuovo quando torno in hotel.
Ho provato ogni terapia, ogni trattamento per questa mia condizione penosa, ho chiesto aiuto a decine di neurologi, ma la mia sindrome è sconosciuta a tutti. Non esiste una diagnosi precisa, dunque non esiste medicina. Un mistero, come le trame dei miei film. Nel penultimo, Gli abbracci spezzati, c’è un regista cieco che, ammetto, è un alter ego di me stesso malato. Ma ormai ho imparato a convivere con questi problemi. Soffro e sono capace di accettare il mio destino. E non provo più la rabbia che avevo alcuni anni fa. Insomma, scendo a compromessi con la maledizione dell’emicrania e l’incubo della luce. E benedico il cinema, unica attività capace di fornirmi un po’ di sollievo dall’eterno mal di testa. Senza film sarei già morto. O forse sarei impazzito, che è peggio».
Pedro Almodóvar (confessione raccolta da Silvia Bizio per OK Salute e benessere di luglio 2012)