L’attore australiano Hugh Jackman, confessa a OK di usare il canto per placare qualche piccolo attacco d’ansia che ogni tanto lo prende nella vita quotidiana o sul lavoro.
Il canto mi calma, placa l’ansia. Lo considero il mio antidoto personale e straordinario all’angoscia. Intanto perché, da un punto di vista fisico, tiene a bada il respiro corto che ti prende quando un cruccio ti martella, quando ti prende l’inquietudine. E più vai in affanno più le preoccupazioni crescono e non trovi come uscirne. Ma intonare una melodia è un toccasana: si distendono la voce e anche i pensieri.
Il canto parte dalla respirazione, che è la base della vita, il ritmo della vita. In questo senso non credo ci sia molta differenza tra quello che ti insegnano a una lezione di yoga e quello che ti spiega un maestro di canto.
Devi imparare a inspirare ed espirare profondamente, aprendo i polmoni e usando il diaframma, quel muscolo cardine che abbiamo sulla bocca dello stomaco, come se pescassi l’aria dalle tue viscere, senza trattenerla in gola. Per questo, come lo yoga, il canto ti insegna a rilassarti e perfino ad aprire una porta interiore che conduce a spazi di coscienza superiori, il tuo terzo occhio.
So che quello del terzo occhio è un concetto mistico, esoterico. Ora, non voglio suonare troppo New age né dire che si diventa veggenti, ma devo ammettere che l’atto canoro, il respiro e il conseguente porgere la voce in una proiezione armonica, crea uno stato di rilassatezza misto a eccitazione capace di darti maggiore consapevolezza e di sconfiggere qualsiasi tipo di ansia. Un cantante come si deve, soprattutto lirico, perfezionando le tecniche respiratorie e di controllo del diaframma riesce a entrare in uno stato semi-nirvanico nel momento della perfomance, simile a quello, credo, del subacqueo che scende a profondità recondite in apnea.
Il canto è anche il saper trattenere il fiato, respirando bene, un mezzo per frenare l’iperventilazione che si accompagna alla paura e all’angoscia. L’ho provato e messo a punto anche sul set di Les Misérables, un film difficilissimo e terapeutico allo stesso tempo: il respiro dava vita alla voce e al canto, e il canto mi calmava e mi faceva sentire realizzato. Tutto quello che ho fatto come interprete di Jean Valjean, in questo musical tratto dal romanzo di Victor Hugo, si è manifestato all’insegna dell’estremo. Un gioco estremo di equilibrio nella recitazione, il corpo prosciugato all’estremo dopo gli anni di prigione del protagonista, la voce tirata all’estremo per le parti cantate.
Les Misérables è un film che ho affrontato e realizzato con una paura costante, in un perenne stato d’ansia. L’ansia di non riuscire a cantare bene, ma anche legata alla trasformazione fisica a cui avrei dovuto sottopormi, tipo perdere dei denti e vari chili di peso.
Sul set ho dovuto cantare una media di 12 ore al giorno, e mi chiedo se Luciano Pavarotti o Caruso abbiano mai tentato un simile record, giorno dopo giorno. La cura delle mie corde vocali è diventata per forza di cose rigorosa, come se si trattasse di un organo vitale come il cuore. Il tour de force mi ha costretto a un regime di disciplina e di forma fisica non diversa, credo, da quella di un atleta che si prepara per le Olimpiadi.
Mi sono rivolto di nuovo alla mia maestra di musica, Joan Lader, a New York, che mi ha seguito spesso nel canto. Io ho lavorato in molti musical, anche a Broadway, piazza più che esigente. Con lei sono riuscito a migliorare la mia estensione vocale. E soprattutto ho superato la mia ansia da palcoscenico. Che stavolta era davvero elevata.
Hugh Jackman (confessione raccolta da Silvia Bizio)
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