Posso confessarlo? Mentre aspettavo il trapianto di polmoni, a volte mi attaccavo all’ossigeno, lo mettevo al massimo e ballavo per qualche minuto in salotto. Poi ero costretta a stare mezz’ora sdraiata sul letto, per riprendere fiato e forze, fortunatamente non è successo nulla di grave, ma avevo 19 anni e la danza mi mancava troppo.
Avevo abbandonato tutto all’improvviso, le prove dello spettacolo e la mia città per trasferirmi vicino all’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano dove ero in lista d’attesa. Avevo iniziato a stare male due anni prima, sembrava bronchite e invece, dopo una serie di radiografie, si scoprì che era uno pneumotorace: avevo bollicine d’aria nei polmoni che rischiavano il collasso. Per i medici avevo i polmoni di una novantenne che aveva fumato per tutta la vita, io invece mi sentivo solo un po’ più affaticata del solito.
Il secondo pneumotorace è stato tre mesi dopo, prima della terza prova all’esame di maturità. Mi sono detta: io l’anno scolastico non lo perdo. E così sono andata a farmi interrogare sulla sedia a rotelle e con l’ossigeno per respirare. È arrivata poi la diagnosi di istiocitosi a cellule di Langerhans (SCOPRI qui), mai sentita prima. Nessuna terapia, solo gli antidolorifici per le fitte alla schiena e la raccomandazione di non fare sforzi per scongiurare un altro pneumotorace. Ma il rischio, e la paura, era sempre presente: una volta mi si è «scollato» un polmone soltanto nell’abbassarmi a mettermi la crema sulle gambe.
Mio papà ha cercato chi si occupasse di istiocitosi in Italia e, per caso e per fortuna, è arrivato alla dottoressa Emanuela De Juli, la pneumologa che mi segue ancora oggi. Ho fatto tutte le terapie disponibili ma la malattia non si è fermata. I medici mi hanno sempre detto la verità: non sarei guarita e, mentre peggioravo, restava solo l’opzione del trapianto. I miei genitori hanno chiuso il negozio, venduto casa e ci siamo trasferiti a Desio. Il periodo più difficile è stato il giorno del mio compleanno, quando mi hanno ricoverata per il collasso di entrambi i polmoni: avevo l’ossigeno al massimo e la morfina per il dolore. Poi, sono arrivati due polmoni compatibili.
La prima cosa che ho fatto, ero ancora in rianimazione, è stata «tendere la punta» come a danza: volevo vedere se dopo l’intervento ero ancora quella di prima. Ho gli stessi polmoni da nove anni e mezzo, tante medicine da prendere, ogni sei mesi i controlli in ospedale con il dottor Giorgio Ziglio, un altro «di famiglia» insieme a fisioterapisti e infermiere dell’ospedale. La mia istiocitosi multisistemica non si è arrestata e ho già avuto due riacutizzazioni, ho sintomi cerebrali, cutanei, polmonari.
Siamo in tanti con questa malattia bizzarra, così diversa in ognuno di noi, ci riuniamo in un gruppo su Facebook, molti sono bambini. Vorrei che si facesse di più per la ricerca di nuove terapie e la diagnosi precoce. Forse da bambina avevo dei sintomi che sono passati inosservati perché pochi medici conoscono la malattia, forse non sarei arrivata al trapianto di polmone. Oggi vado nelle scuole con l’Associazione Italiana Donazione Organi e spiego ai ragazzi che è importante donare per ridare la vita a qualcuno. Sento la responsabilità di stare bene per me e per la ragazza, mia coetanea, che mi ha donato gli organi. La danza? Non l’ho abbandonata: non farò la ballerina professionista, ma dopo il trapianto ho iniziato a insegnarla.
Pamela Satriano
[a cura di Cinzia Pozzi]