Un padre anestesista alle prese con la bocciatura del figlio ai test d’ingresso a medicina: ecco il racconto di Alberto Zangrillo, medico personale di Silvio Berlusconi. Con qualche dubbio sul metodo delle 100 domande in 100 minuti…
«Quanto può star male un genitore davanti alla delusione di un figlio che vede infrangersi il sogno? Moltissimo, più di quanto avessi mai immaginato. L’ho provato sulla mia pelle tre anni fa, quando il mio primogenito non è riuscito a sostenere con esito positivo gli ormai famigerati test d’ingresso per la facoltà di Medicina. Più o meno 100 domande in 100 minuti: un quiz che comprende quesiti di diverse discipline, dai classici all’attualità, cui rispondere peraltro in condizioni di grande stress.
Mio figlio voleva seguire le mie orme. Negli ultimi tre anni di liceo era nata in lui una passione fortissima per la professione medica. Chiedeva del mio lavoro, mi tampinava con continue domande e pretendeva che gli raccontassi i particolari delle mie giornate in ospedale.
Dopo la maturità, ha passato l’estate sui libri. Cultura generale, logica, biologia, chimica, fisica, matematica. Lo guardavo, un po’ allibito, studiare tomi, allenarsi sui fac-simile dei test, esercitarsi con le prove degli anni passati. Per quanto mi riguarda, gli avevo consigliato di prepararsi anche in inglese.
La frustrazione di non passare quelle prove fu grande per mio figlio. Ma al di là di questa vicenda, che mi ha coinvolto personalmente come genitore, trovo, dal mio punto di vista di medico e professore universitario, che le modalità che regolano l’accesso alle facoltà di medicina siano deludenti e inique.
A oggi, si decide in un quiz di poche ore del futuro, del progetto di vita di un giovane; si stabilisce in base a questa performance se quel ragazzo o quella ragazza potranno diventare dei buoni medici, se hanno attitudine per questa disciplina. Credo che rispondere a 100 domande in 100 minuti non ci dia alcuna garanzia di selezionare veramente le risorse migliori, quelle che saranno per esempio in grado di gestire quel particolare equilibrio psicologico richiesto a chi lavora in corsia e di condividere con gli altri quelle qualità umane che deve possedere chi è a contatto con i pazienti e la loro sofferenza.
Io non sarei stato ammesso
Nella mia professione mi è capitato di incontrare e di dover disilludere medici già formati che, pur avendo avuto risultati eccellenti in prestazioni nozionistiche, non erano in grado di rapportarsi al malato o di lavorare in squadra. Ci vuole tempo. Bisogna lasciare spazio ai ragazzi perché prendano confidenza con la materia ed entrino nel vivo della pratica quotidiana prima di mettere loro un bollino: in o out.
Sarei dell’avviso di creare dei questionari di valutazione da svolgere in itinere. Poi, penserei a un percorso prefissato e rigido: un tot di esami in un tot di semestri. Se non stai al passo, se non cresce in te la responsabilità allo studio e all’applicazione puntuale e costante, allora sì, sei fuori.
Ai miei tempi, quando la prospettiva di diventare medico era più fortunata si diceva “per fare il medico ci vuole passione”. Lo si ripeteva in un modo forse un po’ convenzionale, con una frase che col tempo si è logorata. Ma adesso per realizzare questa passione bisogna fornire una buona performance in un quiz e non mi pare certo un salto di qualità.
Con una prova del genere, sarei stato bocciato anch’io. Sono entrato a Medicina quasi per ripicca, per dimostrare alla mia professoressa di matematica del liceo che non ero un ragazzo da zero, come pensava. Ero così poco avvezzo all’ambiente medico che ogni volta che entravo in ospedale avevo una crisi lipotimica, cioè svenivo, per colpa dell’odore di disinfettante.
Si può essere giudicati così?
Ai miei tempi non c’erano test, però so bene che a vent’anni non ero certo pronto per essere giudicato idoneo o meno alla professione. Quella della sfiducia di un’insegnante nei miei confronti fu una spinta negativa, ma fondamentale, nel farmi fare una scelta che non sarei credibile se definissi ponderata.
I miei presupposti erano insufficienti, erano una sorta di sfida e credo che la mia storia rappresenti una prova del fatto che per diventare un buon medico non occorre superare un test che fa una sorta di selezione profilattica. La passione non è un innamoramento, un’idea, un’immagine di sé, ma è quella responsabilità che nasce, cresce, matura nel tempo e che costringe a un lavoro costante.
Ho iniziato studiando come un pazzo la teoria, poi mi sono appassionato alla pratica. Ho capito che fare il medico era la mia vocazione e solo allora ho scelto l’anestesia come specialità. Le mie abilità le ho affinate dopo, le mie peculiarità le ho scoperte cammin facendo».
Alberto Zangrillo (testo raccolto da Francesca Gambarini per OK Salute e benessere di gennaio 2011)