«A mia madre, per avermi insegnato ad amare gli altri». È questa la dedica con cui Camilla Filippi apre il suo romanzo d’esordio, La sorella sbagliata, ispirato alla storia della sua famiglia, numerosa e per certi versi impegnativa. «Sono cresciuta fin da piccola con la consapevolezza di che cosa significhi davvero stare accanto a dei portatori di handicap motori e mentali, avendo in casa due persone, mia zia Giovanna e mio zio Egidio, con disabilità severa, per la quale hanno sempre avuto bisogno di assistenza», racconta. «A fornirgliela incessantemente è stata mia mamma Luciana, una donna forte che si è presa cura di loro come se fossero due figli “acquisiti” in più rispetto ai suoi che già aveva».
Quali insegnamenti le ha lasciato sua madre, che per i suoi zii è stata quella che noi oggi chiamiamo una caregiver?
«Mia mamma lavorava come segretaria in una scuola elementare, tornava a casa e qui iniziava la sua seconda giornata, tra il sostegno ai suoi fratelli, le attenzioni rivolte a noi bambini, le faccende domestiche, gli appuntamenti con i medici e la burocrazia della sanità pubblica. Era una vita faticosa la sua, ma non l’ha mai fatto pesare a nessuno. Mai una lamentela, mai una lacrima. Mia mamma era la prima a ironizzarci su, per alleggerire le nostre giornate, il clima familiare ma anche le vite di Giovanna ed Egidio. Mi ha sempre insegnato che, se le cose non si possono cambiare, tanto vale accettarle. E farlo con il sorriso è sicuramente meglio».
Una ricerca dell’Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere ha confermato che l’86% delle italiane ricopre il ruolo di caregiver, spesso trascurando la propria qualità della vita. È stato così anche per sua madre?
«Sì, persone come mia mamma si prendono sempre cura degli altri, ma mai nessuno si prende cura di loro. Io e i miei fratelli eravamo troppo piccoli per capirlo: per noi era già impegnativo dover familiarizzare con il concetto di disabilità, figuriamoci preoccuparci del benessere di nostra madre. Per me quella vita rappresentava la normalità, solo dopo ho capito che la salute dei miei zii la assorbiva così tanto da non riuscire a dedicarsi ad altro.
Oggi le direi che forse avremmo dovuto trovare un punto di incontro tra la sua vita e quella di chi aveva bisogno di lei, così da non dover necessariamente mettere in stand-by la sua quotidianità, la sua salute, la sua felicità. Quando poi mia madre si è ammalata, lasciandosi alle spalle il ruolo di caregiver per diventare lei stessa una paziente, ho compreso veramente quanto si fosse spesa per assistere gli altri, ritrovandomi io nella sua stessa situazione».
Come si guarda alla disabilità con gli occhi di una bambina?
«Crescendo accanto a mio zio, affetto da una lesione cerebrale causata dal forcipe, e a mia zia, a cui avevano diagnosticato una condizione di spasticità, sono sempre stata educata alla “diversità”, intesa come molteplicità di mentalità, aspetti fisici, modi di comunicare e relazionarsi. Che Egidio fosse un bambino nel corpo di un uomo adulto o che Giovanna avesse alcune parti del corpo “accartocciate” per me erano condizioni che si differenziavano da tutto il resto, certo, ma le consideravo comunque “normali”.
Non lo erano, invece, per i miei coetanei. Se passeggiavo mano nella mano con gli zii facevano finta di non riconoscermi, sogghignavano, mi prendevano in giro, imitavano le loro disabilità. Con gli anni mi sono resa conto che quei bambini erano semplicemente impreparati, dalle famiglie e dalla scuola, ad accogliere la diversità; il diverso all’inizio spaventa sempre. Nessuno aveva insegnato loro cosa volesse dire vivere in un mondo in cui la disabilità non solo è possibile ma è anche accettabile. Su questo aspetto ho insistito molto con i miei figli».
Cioè?
«Ho cercato di far capire loro che la diversità non deve far paura ma, al contrario, può rendere più tolleranti le persone nell’approccio con gli altri. Non dobbiamo respingere qualcuno solo perché si presenta, si muove, si esprime diversamente da noi e da ciò che reputiamo “normale” (ma poi, normale rispetto a chi? Rispetto a cosa?), ma dobbiamo fare lo sforzo di andare oltre, senza il timore di fare domande ai genitori o agli insegnanti. Chiedere “cos’ha?”, “perché si comporta così?”, “guarirà?”, “come posso relazionarmi con lui o lei?” sono quesiti legittimi, ai quali mamme, papà e professori devono rispondere chiaramente, senza ansie. Vorrei che i miei figli imparassero a stare dalla parte giusta, quella umana, proprio come mi ha insegnato mia madre».
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