Ha all’incirca 13 anni ed è seduta su una poltroncina in tessuto verde, con un tegolino in una mano e un succo all’albicocca nell’altra. Ha da poco finito i compiti e sta guardando, come ogni pomeriggio, I Robinson, una delle prime sit-com statunitensi trasmesse in Italia. A un certo punto, nella puntata di quel giorno, si scopre che Theo, il figlio adolescente di Cliff e Claire, è dislessico. Non è stupido, non è meno intelligente di altri, non è un incapace: è semplicemente dislessico. È la prima volta che Andrea Delogu sente quella parola e, benché sia ancora una ragazzina e non abbia gli strumenti giusti per capire e documentarsi, percepisce dentro di sé che lei, con quella parola lì, ha qualcosa a che fare. Non riesce a coglierne il senso reale, ma inconsciamente sente che le appartiene.
Sono ancora lontani i tempi della diagnosi, che avverrà quasi vent’anni dopo, ma sono ancora troppo vicini quelli delle difficoltà scolastiche, del perenne senso di inadeguatezza, degli sguardi inquisitori dei professori, della frase di circostanza «è intelligente, ma non si applica», della stoica pazienza dei genitori di fronte a tante problematicità.
Del resto negli anni Ottanta e Novanta la conoscenza dei disturbi specifici dell’apprendimento era ancora piuttosto scarsa, tant’è che di dislessia non si parlava né a casa né tantomeno a scuola. Di fatto, era come se non esistesse. «Noi dis eravamo solamente svogliati, limitati, pasticcioni e per alcuni addirittura stupidi. Oggi, grazie alla consapevolezza acquisita, sappiamo che noi “funzioniamo” in maniera differente dagli altri: non meglio, non peggio, ma solo diversamente», dice la conduttrice.
In questo articolo
Quindi lei ha dovuto fare i conti con una dislessia non diagnosticata a lungo, a scuola e anche oltre. Quali erano i segnali sotto agli occhi di tutti ma che, purtroppo, nessuno è stato in grado di cogliere?
Non riuscivo a leggere fluentemente ad alta voce come tutti gli altri bambini che sì, procedevano con tutte le incertezze del caso, ma sempre piuttosto spediti. A ricordare, oggi, l’ora di lettura provo ancora un certo disagio. Cercavo sempre di capire con largo anticipo quale parte del testo avrei dovuto leggere durante il mio turno per potermi preparare in quei pochi minuti d’attesa. Non solo, però, era difficile prevedere l’ordine in cui ci avrebbe chiamati l’insegnante ma, convinta di incepparmi davanti a tutti, ero costantemente in preda all’ansia e ciò non giovava certo alla lettura. Di fronte a me le lettere del brano si confondevano, sparivano, si muovevano, si capovolgevano e nonostante cercassi di “incasellarle” nella giusta posizione, aiutata dal dito indice sempre puntato sulla pagina, mi si formavano piccoli blackout nella testa che mi portavano a saltare una o più parole senza neanche rendermene conto.
L’agitazione provata in quei momenti mi impediva di concentrarmi e cogliere il senso di ciò che stavo leggendo. E se non seguivo il filo logico, individuare le singole parole nel brano era ancora più complicato. Oltre ai problemi di lettura e di concentrazione avevo anche una pessima calligrafia, impiegavo più tempo del dovuto nella scrittura e manifestavo molte difficoltà con la memorizzazione. Con le tabelline e la coniugazione dei verbi, ad esempio, ero una frana non tanto per l’operazione in sé, quanto piuttosto per la fatica di dover ripescare dalla memoria informazioni sempre diverse, per giunta nel più breve tempo possibile. Per un dislessico, infatti, rispondere velocemente e correttamente attingendo alla cosiddetta “memoria a richiesta” è davvero molto complicato e frustrante.
Ecco, frustrante. È così che definirebbe la sensazione provata in quegli anni?
Capivo di avere tutte le carte in regola per essere un’ottima studentessa, ma di fronte a un testo scritto o a un foglio bianco qualcosa si inceppava, come se avessi tirato il freno a mano e cercassi comunque di proseguire la corsa. Era frustrante, sì. Nessuno riusciva a spiegarsi come mai io fossi in grado di parlare, apprendere e socializzare senza grandi fatiche, ma continuassi a leggere, anche dopo diversi anni dall’acquisizione del processo di lettura, come una bambina che ha appena imparato l’alfabeto.
Mi sentivo inadeguata e soffrivo di ansia già alle scuole elementari. L’idea di dover leggere ad alta voce o di superare qualche prova di logica davanti a tutti mi mandava in crisi e mi caricava di stress. Condizioni, queste, che influivano negativamente sul mio rendimento e contribuivano ad alimentare questo circolo vizioso. Però in qualche modo dovevo “sopravvivere”, quindi sin da piccola ho iniziato a escogitare delle strategie…
Cioè metteva in atto delle tecniche di sopravvivenza per rendere meno arduo il suo percorso scolastico?
Esatto, ho imparato ad aggirare l’ostacolo come potevo. Ad esempio, i colori mi hanno sempre aiutata a fare ordine tra le lettere e a trovare un filo logico nei testi, così ho iniziato a sottolineare, cerchiare, collegare le parole con gli evidenziatori, seguendo ovviamente una logica tutta mia. Questo lo faccio ancora oggi quando leggo un libro, studio un copione o mi appunto, sulla lavagna magnetica appesa in casa mia, pezzi di quotidianità che devo memorizzare.
Leggendo e scrivendo con difficoltà, ho poi migliorato la mia capacità di ascolto. Fino ai dieci anni ho vissuto a San Patrignano, dove i miei genitori seguivano un percorso di disintossicazione. Qui trascorrevo le giornate con gli altri bambini, gli insegnanti e i professionisti della struttura, coi quali studiavo e facevo i compiti. Da loro cercavo di carpire più informazioni possibili, ascoltavo e provavo ad assorbire i concetti come una spugna.
Ed è proprio grazie all’ascolto che, qualche anno più tardi, ho imparato perfettamente la lingua spagnola: sentendo sempre parlare un’amica argentina di mia mamma, alla fine sono riuscita a farla mia. Cosa che non è avvenuta, ad esempio, con l’inglese, che al contrario ho dovuto studiare sui libri di scuola… Avete presente cosa significhi per un dislessico imparare una lingua straniera, magari con parti di testo e spiegazioni in classe in italiano?
Comunque, oltre all’ascolto, quando avevo la possibilità di muovermi fisicamente durante la lettura o un’interrogazione di matematica avevo più chance di farcela perché la mente era più “libera” di concentrarsi sull’obiettivo finale. Più avanti, soprattutto durante gli anni del liceo, ho poi scoperto che se leggevo interpretando e recitando mi risultava più facile infilare le parole una dietro l’altra.
Quando ha iniziato a prendere coscienza del suo disturbo?
È stata una presa di coscienza lenta e graduale. Dopo quella puntata de I Robinson, che ha smosso qualcosa seppur inconsciamente, c’è stato un altro episodio che ha rappresentato lo spartiacque tra un prima e un dopo. Prima di dare un nome alla mia caratteristica e dopo averlo dato. Avevo già quasi trent’anni, stavo aspettando l’autobus sotto a una pensilina di Rimini e mia madre mi invia sullo smartphone un video di YouTube. «Amore, potrebbe essere?», mi scrive. Nei due minuti di video vengono mostrate le lettere di un testo come appaiono ai dislessici. Si muovono, corrono, si ribaltano, spariscono fino a lasciare uno spazio bianco. È stata una liberazione. Finalmente sapevo.
Tempo dopo ho sentito la necessità di andare in analisi, anche per mettere un punto a questa costante situazione di incertezza. Dopo un test di lettura a tempo, uno di comprensione del testo e un altro di dettatura, è arrivata la conferma dello psicologo. Ero (e sono) dislessica. Anche se sembra assurdo, ho provato una sensazione bellissima, quasi al limite dell’euforia. Finalmente avevo tra le mani la risposta che per anni avevo cercato invano.
Successivamente mi sono sottoposta a tutti i test necessari per avere una diagnosi ufficiale e un certificato che lo dimostrasse. Dopo numerose prove di lettura con e senza tempo, scrittura con e senza disturbo (cioè scrivere facendo un’altra cosa contemporaneamente, ad esempio parlare), dettatura e logica, lo specialista ha diagnosticato una dislessia senza disortografia associata a lentezza nella lettura. Insomma, ero dislessica ma scrivevo correttamente, anche a costo di metterci più del dovuto nel farlo.
Se le dico Il Piccolo Principe, cosa le viene in mente?
Quando hai tutti questi problemi nella lettura ti convinci che leggere non ti piaccia, a prescindere dal genere di testo che hai davanti. È stato così anche per me: per anni ho convissuto con l’idea che la lettura di un libro non facesse per me. Quando poi ho avuto la conferma di essere dislessica, prima coi test dell’analista e poi con la diagnosi, ho voluto capire se fosse davvero così.
Sono partita da Il Piccolo Principe, un libriccino piuttosto breve di cui avevo sempre sentito parlare. Mi sono infilata in un centro commerciale e, seduta su una panchina, me lo sono letta tutto. Mi sono presa i miei tempi ma ce l’ho fatta. E alla fine ho capito che leggere mi piaceva, e anche tanto. Da quel momento non ho più smesso.
Dopo la diagnosi ha intrapreso un percorso per migliorare le sue abilità di lettura e scrittura?
Avendo “scoperto” questo disturbo in età adulta, dopo averlo gestito per anni con tecniche di sopravvivenza, non ho sentito la necessità di affidarmi a uno specialista. Ormai convivo con questa caratteristica serenamente e, rispetto al passato, ho fatto passi da gigante, anche grazie alla mia professione. È stata questa, per me, la vera palestra. Quello che ho fatto, però, è stato contattare l’Associazione italiana dislessia per avere non solo il maggior numero di informazioni possibile, ma anche un supporto psicologico, che per me è stato indispensabile. Inoltre, grazie a loro ho conosciuto gli strumenti compensativi. Sono dispositivi perlopiù digitali che sopperiscono alle difficoltà di lettura e scrittura e che ormai io uso nella mia quotidianità.
La dislessia ha rappresentato un limite alla sua carriera?
No, anzi, sono riuscita a trasformare questa mia caratteristica in un’opportunità. Avendo difficoltà oggettive nella lettura e nella scrittura, ho sempre cercato di puntare su altre doti, come la capacità di intrattenere e di fare spettacolo. Lo facevo già ai tempi della scuola, anche per distogliere l’attenzione dai miei problemi. Quando poi ho avuto la conferma di essere dislessica ho cercato di sdoganare questo disturbo, senza farne mistero o girarci troppo intorno.
Quando sono in onda su Rai Radio 2 con La versione delle due, ad esempio, mi capita spessissimo di incepparmi mentre leggo i messaggi degli ascoltatori, ma la butto sul ridere, ci scherzo sopra, chiedo scusa e vado avanti. Ormai anche chi mi segue sa che ho la dislessia e se mi blocco o sbaglio non si scandalizza più nessuno, ecco.
Se devo studiare un copione, e recentemente l’ho fatto per il mio spettacolo teatrale 40 e sto, cerco di memorizzare le battute utilizzando i colori, muovendomi nello spazio, associando frasi o parole a determinati gesti e movenze. E poi ho imparato a prendermi i miei tempi, fregandomene del giudizio di chi non mi conosce e non sa. È un modus vivendi che ho messo in pratica anche quando ho scritto i libri Dove finiscono le parole – Storia semiseria di una dislessica e Contrappasso e che continuerò ad attuare anche in futuro.