Sul suo stato di WhatsApp campeggia la scritta «Save the planet» e su Twitter si rivolge agli utenti che seguono le sue battaglie chiamandoli «terrestri». E poi, in piena pandemia viene nominato «Top green influencer» per il contributo dato nella divulgazione social delle tematiche ambientali, mentre pochi mesi fa è stato insignito del Premio Ciak Verde, istituito dal Festival CinemAmbiente e da Legambiente per conferire un riconoscimento ai personaggi del cinema e dello spettacolo che scendono in campo per la salvaguardia del nostro ecosistema. E ancora, nel 2022 ha scritto Io e i #GreenHeroes. Perché ho deciso di pensare verde (Piemme), dove racconta le storie di chi sta lavorando per creare un’economia sostenibile.
Alessandro Gassmann non è solo uomo di cinema e teatro ma è anche «megafono» – è così che ama definirsi – di una più che mai necessaria transizione ecologica. Uno che passa dalla ramazza per ripulire le strade di Roma agli hashtag sui social per coinvolgere aziende e singoli cittadini a unirsi alla sua (e non solo sua) «rivoluzione verde». E se gli chiedi perché sia così attento alle tematiche ambientali lui ti risponde che «se ami tuo figlio di un amore incondizionato non puoi non preoccuparti dei figli che avrà, del pianeta che stiamo consegnando loro e di come lui vivrà in futuro le mie stesse preoccupazioni».
Quindi è grazie alla paternità se ha sviluppato questa sensibilità ecologica?
«Diventare padre ha proiettato le mie responsabilità nel futuro, rappresentando sicuramente una svolta nel mio modus vivendi. Con la genitorialità la mia preoccupazione non ha più avuto come linea di demarcazione il mio ultimo giorno di vita, com’era stato fino ad allora, ma si è allungata ben oltre il mio tempo, la mia esistenza. La nascita di Leo mi ha aperto gli occhi su quanto fosse importante ciò che sarebbe accaduto in futuro, anche dopo la mia scomparsa.
Per anni ho mangiato e consumato come se non ci fosse un domani e questo non è solo un gettonatissimo modo di dire: è stato proprio così, tutti abbiamo sprecato e sperperato senza pensare alle conseguenze e a chi sarebbe venuto dopo di noi. Ma quando ti nasce un figlio, lo tieni per la prima volta tra le braccia e lo guardi sonnecchiare e sbadigliare sotto la sua copertina pensi al pianeta che stai lasciando a lui, ai suoi figli e ai suoi nipoti e a quello che anche tu hai fatto per renderlo un posto peggiore. Ora che ne ho preso coscienza voglio provare a invertire questa tendenza e a evitare il disastro. È un piccolo grande regalo che sto facendo a Leo e a chi verrà dopo di lui».
Quello con la natura è un rapporto di lunga data, però. Merito soprattutto dei suoi genitori?
«Sì, se ho sviluppato un rapporto così viscerale con l’ecosistema è soprattutto grazie a mia madre. Prima ancora di essere un’attrice cosmopolita, vincitrice dell’Orso d’argento al Festival di Berlino del 1960, è stata figlia di contadini francesi. Una donna che, anche dopo aver intrapreso la sua carriera ed essersi stabilita in città, ha sempre sentito il bisogno di tornare alla terra.
Vivevamo a Roma, ma appena potevamo, nei fine settimana o durante le vacanze, ci rifugiavamo in campagna, prima sull’Argentario e poi, dopo un terribile incendio che devastò i boschi intorno alla nostra casa, a San Casciano dei Bagni, in provincia di Siena. Qui trascorrevo ore e ore ad arrampicarmi sui lecci e mia madre, china sulla terra a zappare e piantare cavoli, mi chiamava “enfant sauvage”, ragazzino selvaggio. Questo è, in effetti, un aspetto del suo carattere che ho ereditato. Anche io, proprio come lo è sempre stata lei, mi sento più a mio agio in mezzo alla natura, lontano dall’urbanizzazione, dall’inquinamento sonoro e luminoso, dalla folla. Paradossalmente io, che per il lavoro che faccio sono quasi sempre sotto ai riflettori, amo molto l’isolamento».
Si dice sempre che ognuno di noi può mettere in atto piccoli accorgimenti quotidiani per fare una grande differenza in termini di sostenibilità ambientale. Lei cosa fa?
«Innanzitutto sto attento a ciò che metto nel carrello della spesa, cercando di optare per cibi prodotti con basse emissioni di carbonio e azoto e senza sfruttare intensivamente l’acqua e la terra. A tal proposito scelgo frutta e verdura biologiche e sempre di stagione. Se trovo le fragole a dicembre o la verza ad agosto so che è solo grazie a sistemi produttivi ad alto impatto energetico e non le compro. Inoltre, ho eliminato quasi del tutto la carne, visto che gli allevamenti, specialmente quelli intensivi, sono tra i principali responsabili dell’emissione di gas serra nell’atmosfera. Mangio senza problemi legumi e cereali integrali, che non apportano danni all’ecosistema, e cerco di limitare il consumo di pesce spada, tonno, molluschi e salmone, un po’ per non impattare troppo sulle risorse ittiche e un po’ per le quantità di microplastiche presenti negli oceani oggi.
Oltre a curare l’alimentazione, sono un accanito sostenitore della raccolta differenziata, che faccio in maniera quasi militare anche grazie al supporto di Junker, un’applicazione inventata da tre ragazzi italiani che consente, grazie alla geolocalizzazione e al codice a barre presente sul rifiuto da smaltire, di differenziare in maniera corretta, rispettando ovviamente le regole comunali. Mi rendo conto, però, che in alcune città, come ad esempio Roma, non ci siano sempre le condizioni ideali per fare la differenziata e questo porta, in alcuni casi, a chiudere uno o più occhi.
Un esempio? Abito al terzo piano senza ascensore e il punto di raccolta dei rifiuti dista, dalla mia abitazione, 750 metri. A 58 anni appena compiuti non ho problemi nel percorrere questo tragitto con tre-quattro sacchetti o contenitori diversi, ma forse una persona anziana, senza aiuti, preferisce gettare tutto in un’unica busta e lasciarla sotto casa. Sono certo che le realtà comunali potrebbero fare di più per agevolare i singoli in tal senso. Sempre restando nella Capitale, qui mi muovo in bici e, se proprio sono costretto, con la mia auto ibrida. Avrei voluto acquistarne una elettrica, ma la carenza di colonnine per la ricarica mi ha fatto desistere».
Di tutta l’energia che consumiamo il 35% è utilizzato in casa. Immagino che lei non sia tra quelli che dimenticano sempre le luci accese in ogni stanza…
«Tra amici e familiari sono famoso per essere “il dito più veloce del West”: dove passo io la luce si spegne. Scherzi a parte, in casa mia l’illuminazione rimane accesa solo nelle stanze in cui siamo presenti fisicamente, altrimenti viene giustamente spenta. Ovviamente ho tutte lampadine a led, che mi consentono di risparmiare energia e che emettono luce calda. Lo dico perché nelle strade di Roma si sta abusando di led freddi che imbruttiscono una città conosciuta in tutto il mondo per la sua bellezza. Va bene risparmiare, ma lo si può fare anche con gusto, eh!
E poi regolo il riscaldamento e il condizionamento in modo da evitare il caldo tropicale in inverno e il gelo polare in estate, cerco di ridurre il consumo di acqua, chiudendo il rubinetto mentre mi lavo i denti o mi insapono sotto la doccia, e spengo completamente tv, tablet e computer anziché lasciarli in modalità stand-by».
Quando si parla di sostenibilità ambientale un altro tasto dolente riguarda la plastica. Sa quanti grammi ne ingeriamo alla settimana?
«Guardi, è un dato che conosco bene perché quando ne sono venuto a conoscenza, durante la stesura del libro, mi ha sconvolto. Ogni settimana ingeriamo circa 5 grammi di microplastiche, l’equivalente di una carta di credito, che provengono da fonti diverse, tra cui pesci, acqua, confezioni alimentari e molto altro. Dal canto mio cerco di ridurre al minimo la plastica acquistando ad esempio bottiglie d’acqua in vetro o detersivi alla spina o con packaging sostenibili. Vorrei però che per poter fare questo io non fossi costretto a pagare di più. Penso che se imponessimo alle aziende di produrre solo imballaggi in plastica riciclata o biodegradabile, che tra l’altro è sempre più a buon prezzo, i costi scenderebbero e ciò consentirebbe a tutti, non solo all’attore che può evidentemente permetterselo, di dare una mano alla salvaguardia del pianeta.
Inoltre, se si tornasse alla cara vecchia usanza del vuoto a rendere, oggi presente in alcuni Paesi come Germania, Danimarca e Norvegia, sarei uno dei primi sostenitori. A proposito di microplastiche, mi piacerebbe sapere se tali particelle, che noi ingeriamo ogni giorno, siano effettivamente pericolose per la salute perché nell’ottica di ridimensionamento della nostra impronta ecologica dobbiamo anche pensare a tutelare il nostro benessere psicofisico. Confrontandomi con gli esperti ho scoperto che condurre studi scientifici sugli effetti dannosi della plastica sull’uomo è piuttosto complicato, ma pare che alcuni composti, impiegati soprattutto nella produzione di contenitori e recipienti, interferiscano con il sistema endocrino, causando danni seri».
Di plastica sui set cinematografici ce n’è eccome, basti pensare ai monodose per il pranzo di cast e troupe. Da attore ambientalista pensa che in questo settore si stia facendo qualche passo in avanti per inquinare meno?
«L’industria cinematografica e il comparto dell’audiovisivo fanno ancora troppo poco, ma in realtà qualcosa si sta muovendo, anche grazie ai “rompiballe” come me! I set sono ancora luoghi molto inquinanti: ad esempio, come ha detto lei, si utilizzano packaging e bottigliette di plastica per i pasti, che poi vengono gettati e contribuiscono a impattare sull’ecosistema. E questo avviene ogni giorno, per tutta la durata della produzione. Ci sono però anche case, tipo la Groenlandia fondata da Matteo Rovere e Sydney Sibilia, che hanno sviluppato una certa sensibilità ecologica, tanto da mettere in piedi set plastic free, con l’impiego di prodotti riciclabili o riciclati. Un po’ si è fatto e si sta facendo, ma si potrebbe fare di più, sia inquinando meno durante la realizzazione di un film o una serie tv, sia raccontando storie che tocchino questo argomento».
In questo articolo