«Avere un figlio è una scelta. Una scelta che può modificarsi nel corso del tempo. E può pesare, è inutile nasconderlo. Le leggi devono fare in modo che le donne possano avere più mezzi per rimanere loro stesse, oltre che madri, altrimenti la loro vita è del tutto annullata». Alessandra Kustermann le donne le conosce bene. Conosce le loro felicità e i loro dispiaceri, ma soprattutto i loro dolori. Ginecologa ed ostetrica, ha diretto per 15 anni la diagnosi prenatale della clinica Mangiagalli, presso il Policlinico di Milano, per poi essere nominata, nel 2009, primaria ginecologo, prima donna in cento anni di storia della clinica.
Dagli anni 80 a oggi ha visto il mondo e le pazienti cambiare: l’età media delle donne al parto è aumentata di quasi dieci anni e sempre di più decidono di non avere figli, o di averli dopo. Lei ne ha voluti due, Viola e Pietro, ed è durante la seconda gravidanza, nel 1979, che si rende conto che le donne in ospedale vengono trattate come delle «mentecatte». In quel momento decide che avrebbe fatto la ginecologa e che si sarebbe impegnata affinché nessuno si sarebbe più permesso di non ascoltare una paziente. Mantiene la promessa e anche di più: entra in Mangiagalli nel 1987 e dopo nove anni avvia il primo centro di soccorso antiviolenza sessuale e domestica in un ospedale pubblico.
Un’idea innovativa che poi sarebbe stata imitata da tanti altri istituti italiani. Oggi Alessandra Kustermann ha 65 anni, da poco più di un anno è in pensione, ma visita quel centro ancora ogni settimana e le donne non le ha abbandonate per niente. Con la sua associazione Svs-Donna Aiuta Donna, nata parallelamente al centro antiviolenza negli anni 90, ha avviato il progetto Cascina Ri-Nascita a Cascina Carpana, nel sud-est di Milano, un luogo di accoglienza per donne vittima di violenza e i loro bambini, con un obiettivo non solo assistenziale ma anche formativo.
La sua esperienza con le donne vittime di abusi inizia alla Mangiagalli, quando nel 1996 avvia il servizio di soccorso violenza sessuale e domestica. Lei ha raccontato spesso che è nato un po’ per caso, dopo che le chiesero se voleva occuparsi di violenza. Come preparò lei e il suo team a quel lavoro?
«Abbiamo trasformato quella che era un’accettazione in un pronto soccorso ostetrico-ginecologico, che ancora oggi cura più di 25mila donne ogni anno. Facemmo un corso intensivo di una settimana: eravamo ginecologhe (dovevamo essere tutte donne: la prima visita dopo un abuso non poteva essere fatta da un uomo!), medici legali, assistenti sociali, all’inizio poche psicologhe. La parte più importante riguardava le parole da rivolgere a queste donne: cosa dire, come accoglierle, come empatizzare con loro senza cadere nella compassione sterile. In contemporanea abbiamo seguito anche lezioni con docenti di medicina legale, magistrati, avvocati, che ci aiutavano a capire quali fossero i percorsi legali affrontabili da queste donne se decidevano di presentare denuncia per la violenza sessuale subita».
Succedeva spesso?
«Chi arrivava da noi, un centro pubblico, aveva già una forte propensione a chiedere giustizia. Però accadeva comunque in un caso su due, specialmente se l’autore della violenza era il partner, il marito o il padre dei figli».
Come si cura una donna vittima di violenza?
«Le percosse fisiche guariscono in fretta, è la violenza psicologica a lasciare i maggiori strascichi. Spesso precede e accompagna quella fisica, a volte invece è l’unica che viene esercitata. Non tutti gli uomini picchiano, molti agiscono con una prevaricazione continua, fatta di piccoli gesti e di parole. Tuttavia, bisogna stare molto attenti a non pensare che le donne vittime di violenza siano fragili a priori, o che siano malate: è la violenza a determinare una loro fragilità temporanea. Perciò bisogna lavorare per far emergere le risorse interiori che sicuramente hanno e che il partner ha deteriorato. Alcune donne per riuscirci hanno bisogno di uno psicologo, altre no. E poi bisogna dar loro l’idea che una vita migliore e alternativa esista e sia possibile».
Oggi si parla tanto anche di un altro tipo di violenza, quella ostetrica. Lei ha raccontato che si scusava personalmente quando una paziente si lamentava di essere stata trattata male dalle sue collaboratrici…
«Io credo che ogni epoca abbia le sue pene. Negli anni 80 il rooming-in non c’era, quindi il bambino veniva separato dalla madre subito dopo il parto e messo insieme ad altri neonati. La neomamma vedeva il figlio solo quando le veniva portato per l’allattamento, oppure era costretta ad andare fino alla nursery per allattarlo. Anni dopo si è capito che rompere la relazione che si era creata nella vita intrauterina tra madre e figlio era nocivo e così è iniziata la pratica del rooming-in.
Questo non vuol dire che una donna debba essere costretta a tutti i costi a restare a fianco del neonato per 24 ore al giorno, specialmente se è ancora molto provata dal parto o dall’intervento chirurgico, nel caso ci sia stato un cesareo. Quella che è stata considerata una vittoria, la possibilità della madre di stare insieme al figlio dopo il parto, oggi è vista come un’imposizione. Bene, l’errore c’è se lo diventa, perché nessuno dev’essere costretto a fare qualcosa contro la sua volontà».
Alessandra Kustermann, lei ha seguito le donne, le loro gravidanze e il momento del parto per più di trent’anni. Come sono cambiate e com’è cambiata la maternità?
«Ciò che secondo me è mutato profondamente è il numero di donne che lavora o che studia per realizzare i suoi sogni. Questo cambia l’approccio alla maternità, che non è più un destino ineluttabile, di tutte le donne, ma è una scelta. Una scelta che può esserci come non esserci, e può modificarsi nel corso del tempo. Anche per questo l’età media delle donne al parto si è enormemente alzata. Quando io ho partorito Viola, la prima figlia, nel 1975, l’età media era di 23 anni, adesso è più di 33. È evidente che questi dieci anni di differenza di età rendono diverso anche il modo in cui le donne vivono la maternità».
Ad esempio?
«Spesso sono più sole. Nel senso che quanto più le donne e i loro partner si spostano dal paese o dalla città di origine per lavoro o altre motivazioni, tanto più è evidente la loro solitudine. Mancano le sorelle, le nonne, le zie, le amiche. L’ho notato a Milano, ma è frequente in tutte le grandi città. Prima la nascita era un evento corale, oggi è sempre più chiusa nella triade madre-padre-bambino. Che non è per forza un male, ma rende sicuramente più difficile la vita delle donne nel momento del ritorno a casa. Proprio per questo servirebbe un’assistenza migliore».
Parla di leggi che agevolino la genitorialità?
«Le leggi che hanno aumentato i congedi di paternità mi sembrano un grande passo avanti, però di nuovo non basta, servono interventi più strutturali, che aiutino davvero le donne a ritagliarsi del tempo per lo studio e il lavoro, altrimenti le loro giornate, le loro relazioni, vengono totalmente annullate. Io ricordo con estrema pesantezza il momento in cui dovevo portare i miei figli ai giardinetti. Studiavo medicina e mi portavo dietro un tomo da non so quante pagine per mandare avanti lo studio. Dentro di me pensavo che quei giardinetti erano il mio incubo. Questo per dire che so benissimo quanto sia difficile avere un bambino e allo stesso tempo continuare a essere quelle di prima. E anche se poi è talmente grande la gratificazione che ti danno i figli, l’appagamento non basta, è inutile nasconderlo, perché la vita di una donna viene completamente modificata dalla maternità».
Da medico cosa pensa del diventare mamma a un’età in cui la scienza dice che aumentano i rischi, quindi dopo i 35 anni?
«Se vuoi un figlio scegli anche il momento in cui averlo: a 30 bene, se lo vuoi a 40 pazienza, ci saranno un pochino meno di probabilità di avere una gravidanza, ma non saranno azzerate. Se invece lo vuoi a 50, oltre l’età della menopausa, è evidente che bisogna essere consapevoli dei rischi collegati alla propria salute fisica in gravidanza e del fatto che non si può avere un figlio naturalmente. La scelta di essere o non essere madre è una scelta che la donna deve attuare in piena libertà, ma allo stesso tempo deve sapere quali sono i limiti biologici che la natura le ha dato».
A chi si rende conto di non volere (o non riuscire ad avere) un figlio a 30 anni, Alessandra Kustermann consiglia il metodo del social freezing per conservare la propria fertilità e utilizzarla un domani?
«Io ne parlo con le mie pazienti: se ho una ragazza di 36 anni che ha appena finito una relazione con un partner, magari anche molto lunga, e non ha avuto figli perché non c’era una predisposizione da parte di ambedue a diventare genitore, mi sembra corretto dirle che ha la possibilità di congelare gli ovociti, perché farlo a 36 è ben diverso che farlo a 40.
Chi ha il sogno di avere un figlio, ma gli anni passano e si rende conto che le condizioni economiche, lavorative e relazionali sono a suo sfavore, fa bene a mettere questo sogno al riparo. Tuttavia, quello che dico sempre alle mie pazienti è che, anche dopo essere ricorse al social freezing, se trovano un partner con cui vorrebbero avere un bambino, prima di tutto dovrebbero provare a farlo naturalmente. Perché il calcolo delle probabilità è comunque a favore del metodo naturale piuttosto che alla fecondazione medicalmente assistita degli ovociti congelati».
Spesso viene data la colpa del calo demografico alle donne “che non fanno più figli”. Qual è il suo punto di vista?
«Facile dare la colpa alle donne, ma i figli si fanno in due e anche gli uomini hanno altre priorità nella vita. Le donne oggi hanno ambizioni e sogni che non si limitano alla costruzione di una famiglia. Spetta alla società fare in modo di consentire la conciliazione tra vita familiare e professionale. Il calo demografico non è un problema solo delle donne: è un problema generale. Tuttavia, mi sembra che nel mondo globalizzato non ci sia un calo preoccupante delle nascite e che le risorse della Terra non siano infinite».
Quali sono stati gli altri grandi cambiamenti dal punto di vista medico, le innovazioni che hanno cambiato la gravidanza e la scelta di mandarla avanti oppure interromperla?
«Sicuramente uno dei cambiamenti più grandi ha riguardato la diagnosi prenatale, che anni fa si faceva solo con metodiche invasive, come l’amniocentesi e la villocentesi. Oggi è possibile fare screening semplicemente prelevando del sangue materno e facendo la ricerca delle cellule fetali per individuare potenziali anomalie cromosomiche o alterazioni genetiche. Dal punto di vista del parto, invece, la sempre maggiore diffusione dell’analgesia epidurale, anche in Italia, ha segnato il cambiamento negli ultimi trent’anni. Secondo me tutte le le maternità dovrebbero offrirla giorno e notte. E oggi più di un tempo si accetta anche la richiesta della donna di partorire con un intervento chirurgico. Anche se è bene ricordare che il cesareo ha un prezzo da pagare, perché comporta rischi maggiori sia per la donna sia per il bambino»
Anche i metodi ecografici si sono evoluti molto…
«Quando ero incinta di Viola nel 1975 le ecografie non c’erano. Ricordo che uno dei miei incubi più ricorrenti, non so proprio perché, era che mia figlia nascesse senza le dita di una mano. La seconda gravidanza, quella di Pietro, l’ho avuta tre anni dopo, quando si era già diffusa la tecnica ecografica: con lui non potevo avere incubi simili perché vedevo le sue manine chiaramente attraverso le immagini dell’ecografia. Era estremamente tranquillizzante. Capisce come questo strumento abbia eliminato le paure di molte donne?».
Però il timore di una malformazione, che tutto non vada come deve andare, c’è spesso. Sono paure infondate?
«Le anomalie del feto sono per nostra fortuna una rarità. Forse si mette troppa enfasi su quel 3-4% di anomalie fetali possibili, ma bisogna guardare il dato in maniera ottimistica: il 96% dei bambini nasce completamente sano».
Se le migliori strumentazioni diagnostiche ed ecografiche hanno eliminato le paure di alcune donne, hanno dato loro anche un motivo in più per non abortire?
«Oggi le interruzioni di gravidanza non raggiungono i 70mila casi all’anno, nel 1983 erano circa 250mila. Il calo è dovuto soprattutto alla prevenzione delle gravidanze indesiderate, quindi alla contraccezione. Tuttavia, oggi come ieri, raramente le interruzioni di gravidanza hanno a che fare con la diagnosi prenatale. Il numero di aborti per malformazione fetale rappresenta una minoranza, l’interruzione avviene soprattutto nel primo trimestre per scelta materna di non portare avanti la gravidanza. La verità è che la gran parte dei motivi ha a che fare con le condizioni socio-economiche o con la relazione di coppia che sta alla base di quella gravidanza. Quindi, per quanto riguarda la principale motivazione ad abortire, la differenza può farla solo un maggiore impegno politico per le donne e le famiglie».
Alessandra Kustermann, lei è stata una grande promotrice della legge 194. Da gennaio scorso nelle farmacie americane si vende la cosiddetta pillola abortiva. È giusto che avvenga anche in Europa e poi in Italia?
«Penso che sia una buona cosa. Ricordiamo che la vendita in farmacia non significa che potrà essere acquistata come un farmaco da banco. Servirà comunque la prescrizione del medico o del ginecologo che avrà attestato la volontà della donna a interrompere la gravidanza. Per il resto, non è un farmaco che dev’essere somministrato per forza in ospedale, quindi dove si acquista non è un problema. La farmacia sarà solo un canale in più».
Quando sarà pronta Cascina Ri-Nascita e cosa offrirà alle donne?
«Il progetto di ristrutturazione dovrebbe partire entro luglio di quest’anno e concludersi, mi auguro, nell’autunno del 2024. Saranno realizzati appartamenti dove accoglieremo le donne con figli e spazi in cui svolgere numerose attività, dalla ristorazione alla produzione di oggetti in tessuto, dalla moda alla ceramica, ma ci saranno anche un centro per l’equitazione, una scuola di circo e orti condivisi. Il 64% delle donne che subisce violenza in ambito familiare non ha un lavoro, quindi l’idea è fornire a 90 di loro ogni anno formazione, tirocinio e lavoro.
Creare un curriculum professionale più ricco che, concluso l’anno di lavoro all’interno della cascina, permetta a queste donne di trovare impiego nel mondo esterno. Il progetto è portato avanti dal centro antiviolenza Svs-Donna Aiuta Donna e dalla Casa delle donne maltrattate di Milano, insieme a CampaCavallo, un’associazione sportiva dilettantistica che fa equitazione affettuosa e palestra per bambini con particolari tipi di disabilità».
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