Per un tumore benigno rischiai di morire, e di diventare morfinoide, ma un intervento innovativo, per allora era il ’53, mi salvo la vita. Avevo dodici anni. Le tecniche e la medicina non avevano raggiunto gli apici di questi anni: per superare il dolore c’era solo la morfina. Certo un analgesico che però instaura rapidamente una fase di assuefazione e tolleranza: bisogna aumentarne le dosi per ottenere l’effetto analgesico precedentemente avuto con minori dosaggi.
Tutto è forse iniziato quando sui sette anni mi diagnosticarono le «ghiandole ai bronchi» (sorta di adenomi precancerosi). Da allora in poi continuai ad avere, in maniera sempre più grave, bronchiti e broncopolmoniti. Mi sottoposero a mille visite specialistiche, diventai forse radioattivo per le innumerevoli radiografie a cui fui sottoposto (unico metodo allora disponibile e totalmente inadeguato a rilevare la patologia che io in realtà avevo).
Passai settimane e mesi a letto e feci un’interminabile serie di noiosissime inalazioni per i bronchi… ma continuavo lentamente a peggiorare. Fortunatamente alternando periodi di vita quasi normale, in cui potevo perfino scalmanarmi a giocare al pallone, nuotare e fare il capobanda di un manipolo di decenni, ai bagni del Lido, contrapposto ad altre tribù coetanee. Ma in altri periodi mi toccava, nel migliore dei casi, guardare dalla finestra chiusa di casa i miei amici che giocavano all’aperto. Passavo così molto tempo a leggere (fortunatamente non c’era la televisione), non solo fumetti, gli immancabili album di Topolino ma anche tanti libri che mi regalava mio padre.
Lavorai molto con il Meccano, gioco educativo e creativo per i ragazzi, oggi purtroppo sparito e non adeguatamente rimpiazzato. Giocavo con i soldatini: indiani e cowboys, militari dei vari eserciti, cavalieri, ne avevo una ampia collezione, che utilizzavo come regista inventando trame di combattimento o replicando ciò che avevo letto o visto al cinema. Quei periodi di malattia mi aiutarono molto a sviluppare fantasia, creatività e cultura extrascolastica.
Ma continuavo a peggiorare: un paio di volte, a 11 e 12 anni, in occasione di gravi congestioni polmonari, ebbi anche la sensazione di essere vicino a morire. Sempre più spesso avevo attacchi di tosse e all’inizio del 1953 ebbi anche un forte emotisi: sputai molto sangue mentre tossivo. La situazione andava sempre peggio così mio padre mi portò da Attilio Ferraris, primario del reparto delle malattie polmonari gravi, TBC e tumori, all’ospedale specialistico di Genova, dove era stato già ricoverato suo fratello, Piero, appena ventenne, con la diagnosi di tubercoli.
Ferraris mi visitò nel suo studio, bello ed attrezzato. Lo fece di sabato pomeriggio, lo ricordo ancora. Il dottore era un uomo piacevole, sui 40 anni, alto, tipo James Stewart, dai modi appropriati, coinvolgenti. Emanava un forte carisma. In seguito verificai come mi bastasse la sua presenza per sentirmi già meglio.
Mi fece una visita accuratissima, radiografia inclusa, dopodichè mi mandò all’indomani, domenica mattina, in ospedale per una broncoscopia. La mia fortuna, per cui oggi posso scrivere questo racconto, è che lui fosse il primo in Italia a usare questo sistema d’indagine, che aveva da poco appreso direttamente da Metras, l’inventore di quella tecnica, a Marsiglia. Allora la broncoscopia si faceva con un grosso tubo rigido, di metallo, che, in anestesia locale veniva introdotto attraverso la gola fino ai bronchi.
Io arrivai tranquillizzato dai miei genitori su ciò che mi toccava e così feci la mia prima iniezione di morfina. Fu un’esperienza meravigliosa: mi sentivo solo vagamente stordito, ma provavo un’enorme sensazione di benessere, di pace, di felicità; vedevo tutto rosa ed era bello perfino lo squallido luogo in qui mi trovavo. Ferraris, poi, fu bravo nel coinvolgermi, invitandomi perfino, dopo che lui mi aveva mostrato come, a spruzzarmi da solo l’etere anestetizzante in gola.
Avevo un adenoma bronchiale, un tumore benigno che occludeva il bronco sinistro. Aveva forma e dimensione una ciliegia, il cui picciolo restava ancorato alla parete interna del bronco, vibrando quando entrava l’aria che cercava di arrivare ai polmoni, sibilando come la pallina nel fischietto arbitrale e ormai sanguinando per lo stress delle continue vibrazioni.
Ferraris tentò, già in quella prima broncoscopia, di staccare quel peduncolo incidendone delicatamente il picciolo, ma appena avvicinava il bisturi cominciava il sanguinamento, con pericolo di emorragia. Gli strumenti di cui allora disponeva e che poteva introdurre e manovrare all’interno del tubo, erano primordiali e non prevedevano il cauterizzatore per arrestare emorragie, né l’aspiratore per riassorbirle. Comunque ci riprovò ancora, nei giorni, nelle settimane successive, tentando approcci e tecniche diverse, ma senza esito.
Fu così che io mi sottoposi ad almeno una dozzina di broncoscopie e arrivai al punto che non vedevo l’ora che me le facessero. Perché nonostante il grosso fastidio del tubo in gola, in trachea, nel bronco, nonostante poi dovessi rimanere a lungo, per delle ore con la gola dolorante e irritata, incapace di parlare e ingoiare nulla che non fosse liquido, tutto questo era regolarmente preceduto dall’iniezione stupefacente, la morfina che mi faceva sognare e vivere il Paradiso.
E quando cessava il suo effetto, che aveva durata sempre più breve, mi sentivo stralunato, con una brutta sensazione di manchevolezza generale, dissociato e infelice. Sicuramente stavo diventando morfinomane. Mi resi chiaramente conto di ciò che mi era capitato due o tre anni dopo, quando al cinema vidi L’uomo dal braccio d’oro, famoso film sugli effetti della droga, intepretato da Sinatra e da Kim Novak. La vicenda mi coinvolse moltissimo e la recepii in ogni dettaglio proprio in funzione della mia trascorsa morfinomania broncoscopica.
Infine Ferraris capì che oltre la diagnosi non riusciva, e che sarebbe convenuto portarmi a Marsiglia, da Metras, l’inventore della tecnica, che era in grado di sottopormi al meglio ad un tradizionale intervento chirurgico per asportare l’adenoma. Mio padre non ebbe dubbi sull’opportunità, nonostante l’entità della spesa e fù così che partimmo alla volta di Marsiglia in quattro, il dott. Ferraris, i miei genitori ed io.
Metras tentò a sua volta con la broncoscopia, anche lui senza esito. Così mi operò, assistito da Ferraris: l’intervento durò oltre 6 ore ed ebbe ottimo esito e fù poi anche pubblicato, con foto a colori, sulle riviste mediche specializzate, come interessante caso clinico. Io mi ero addormentato al “sei” della conta per l’anestesia e mi risvegliai il giorno dopo, estremamente contrariato e sofferente: avevo un cannello nel naso (ossigeno), una siringa nel braccio (flebo), e due tubi di drenaggio che mi penetravano il torace, davanti e didietro.
Ed arrivò anche una fisioterapista molto severa a farmi fare ginnastica per evitare che io rimanessi con la spalla sinistra disassata, visto che la trattenevo innaturalmente per paura del dolore. Le prime soddisfazioni furono quando mi misurarono con lo spirometro la capacità polmonare, recuperata alla grande; e sopratutto il poter di nuovo respirare a pieni polmoni, sentir l’aria scendere fino in fondo, dappertutto. Ricordo le prime passeggiate con mia madre, appena fuori, negli orti e giardini che circondavano la villa e tutti quei profumi, tipicamente mediterranei e primaverili, che mi inebriavano. Li respiravo a pieni polmoni. A “pieni” polmoni! Rimasi là per circa un mese e alla fine ne venni via con l’orgoglio di portarmi da solo la valigia.
Quell’estate già ricominciai a nuotare regolarmente e l’anno dopo iniziavo l’agonismo ottenendo presto risultati notevoli. Da allora infatti mi dedicai molto agli sport, con esiti agonistici di ottimo livello in Atletica e nel Nuoto: dovevo rifarmi dell’immobilità che da bambino, per lunghi mesi e durante diversi anni, la malattia mi aveva causato.
Nel 1965, a 24 anni, vinsi il Campionato Italiano di Nuoto Salvamento. Il mio record di Apnea passiva è di 4 minuti (1972), quello di Apnea attiva è di 75 metri (3 vasche) in 2 minuti e 15’. Fin dopo i 60 anni scendevo regolarmente in apnea, senza pinne e con i soli occhialini da nuoto ad abbracciare il Cristo degli abissi a San Fruttuoso, a 18 metri di profondità, circondato da increduli subacquei, con mute, maschere, autorespiratori e profondimetri.
Giorgio Vassallo, 70 anni, Bagnaria (Pv)