Dunque, la domanda era: «Se tuo figlio a cinque anni ti chiede di essere allattato al seno, tu cosa gli rispondi?». Sono rimasta lì dieci minuti con la penna sospesa per aria, terrorizzata. La prima risposta che mi veniva in mente, la più ovvia, mi pareva anche troppo banale: «Gli dico che magari è un po’ grande». Neanche agli esami di maturità ero così agitata: perché là al massimo si rischia di perdere un anno di scuola, qui per me era in gioco la possibilità di diventare mamma. Cioè quello a cui tenevo di più nella vita. Però è andata. Una, due, cento, mille domande. Mio marito Antonello e io, forti, uniti e affiancati come due corazzate gemelle, abbiamo solcato il mare di test, questionari, incontri e colloqui con una pletora di psicologi e assistenti sociali per poter conquistare l’attestato che ci avrebbe consentito di diventare genitori adottivi.
Non è vero quello che dicono, che ci si sente messi sotto una lente di ingrandimento, come persone e come coppia. No, è molto peggio: come se ti facessero una radiografia e una Tac assieme. Nel 2007, dopo un anno e mezzo di graticola, abbiamo avuto il documento di idoneità dal Tribunale dei minori. Che non è la fine del percorso, ma il suo inizio. Tramite alcune associazioni di intermediazione, abbiamo inoltrato domanda sia di adozione nazionale sia internazionale, a oggi la più praticabile. Per quest’ultima la nostra scelta era caduta su un ente di Torino in contatto con i Paesi del Sudest asiatico. Perché? Entrambi abbiamo sempre avuto interesse e simpatia per quelle popolazioni, per la loro calma, la pacatezza, il modo saggio di affrontare la vita. Sì, lo so, sto facendo il ritratto di mio figlio. Andiamo con ordine.
Siamo arrivati nel luglio del 2008. Eravamo in metropolitana con mio marito, qui a Milano, parlavamo di caldo e di vacanze. Mi è squillato il cellulare. Era la psicologa dell’associazione torinese. Aveva una notizia per me: da qualche parte, in un orfanotrofio della Cambogia, c’era un bimbo che aspettava proprio noi. Non dico come mi sono sentita in quel momento, né come siamo stati in apnea quei trenta giorni che ci separavano dal viaggio.
La data di nascita ufficiale di nostro figlio è il 9 novembre del 2002, quella vera nessuno la ricostruirà mai, probabilmente ha sino a un anno in meno. Era stato abbandonato in fasce sul banco di un mercato della città di Takeo, a sud di Phnom Penh, la capitale cambogiana. Come un pacchettino. Quando l’ho visto, Samnang era seduto su una panca dell’orfanatrofio, con il visino contratto dall’ansia.
Avete mai visto un bambino volare? Lui mi è volato al collo senza lasciarmi più. Ha voluto andare via immediatamente, di corsa. Solo, ci ha tenuto a stringere educatamente la mano a tutti gli altri bambini che restavano lì. Adesso fa la seconda elementare, è il primo della classe in matematica, si è integrato benissimo. Se c’è un problema è che tutti e tre ci vogliamo troppo bene.
Io, da giovane, ho avuto una seria forma di endometriosi che mi ha reso sterile: penso che se la vita da una parte mi ha tolto, dall’altra mi ha dato la possibilità di avere Sam. Adesso abbiamo fatto domanda per potergli dare, speriamo, una sorellina. Intanto, ormai, io mi sento in grado di superare qualsiasi test. Cosa ho risposto alla domanda sull’allattamento? Ho scritto: «Gli dico che magari è un po’ grande». Era giusta.
Antonella Cursano, 50 anni
(testimonianza raccolta da Paola Tiscornia)
GUARDA ANCHE:
Come funzionano le adozioni internazionali
Adozioni, come dire la verità
Veronesi: adozioni per i single, un atto di civiltà
Endometriosi, l’intervento per salvare la fertilità
Il vuoto dentro di chi non può avere figli
Procreazione assistita: tutte le procedure
Vuoi raccontare la tua storia?
SCRIVI A OK