No non mi piace. Posso accettare la crudezza di linguaggio, il realismo delle difficoltà, la rabbia dettata dalla disperazione e dall’incapacità di gestire la disabilità. Ma non posso accettare la cattiveria. Il libro di Massimiliano Verga, sociologo del diritto all’Università di Milano Bicocca, Zigulì. La vita dolceamara con un figlio disabile, non può lasciare indifferenti.
«Se Moreno (il figlio disabile di Verga, ndr) potesse leggere o capire quello che ho scritto, avrebbe il diritto di incazzarsi con me», scrive l’autore del libro. «Ma, per fortuna, non può leggere perchè è cieco. E neppure capire perché la Zigulì che ha sotto i capelli gli consente solo di riconoscere tre parole che servono per sopravvivere: pappa, acqua e nanna. Insomma uno dei vantaggi di avere un figlio handicappato è che puoi permetterti di essere un idiota e di trattarlo male. E io mi concedo questo vizio».
Anche se tra le righe si può leggere un certo affetto e la forte rabbia per l’impotenza verso un figlio in difficoltà, faccio fatica a digerirle. Non è per un falso perbenismo, ma queste parole mi feriscono. «Sei insopportabile», scrive Verga, «Preferirei masticare la sabbia piuttosto che sentirti. Anche dei chiodi nelle mutande sono più piacevoli della tua voce. Quando urli così non ho scelta. O ti sbatto in camera e chiudo la porto oppure ti prendo a sberle. Quasi sempre finisci in camera. La ritengo una conquista».
Chi è abituato a usare le parole sa che ogni affermazione ha un peso, crea un effetto, trasmette qualcosa agli altri. Scrivere è quasi strapparsi di dosso una parte e regalarla alla vista e al giudizio degli altri. E se tratti di puro affetto mitigano la violenza di certe affermazioni, non riesco ad accettare la cattiveria con cui è scritto,
«Ho raccolto gli odori, i sapori e le immagini della vita con mio figlio Moreno», scrive Verga. «Odori per lo più sgradevoli, sapori che mi hanno fatto vomitare, immagini che i miei occhi non avrebbero voluto vedere. Ho perfino pensato che fosse lui ad avere il pallino della fortuna in mano, perché lui non può vedere e ha il cervello grande come una Zigulì. Ma anche ai sapori ci si abitua. E agli odori si impara a non farci più caso. Non posso dire che Moreno sia il mio piatto preferito o che il suo profumo sia il migliore di tutti. Perché, come dico sempre, da zero a dieci, continuo a essere incazzato undici. Però mi piacerebbe riuscire a scattare quella fotografia che non mi abbandona mai, quella che ci ritrae quando ci rotoliamo su un prato, mentre ce ne fottiamo del mondo che se ne fotte di noi. Questo libro è uno dei tanti scatti che ho fatto negli ultimi anni. Ma mi sento come un fotografo che usa ancora una macchina analogica. Per vedere se è lo scatto giusto, devo aspettare che qualcuno sviluppi la pellicola e mi faccia avere la stampa».
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