Le donne non erano in grado di correre una maratona. Non solo perché fisicamente inferiori, ma anche perché lo sforzo fisico poteva causare addirittura danni alla fertilità. Siamo nell’America degli anni ‘70 e la Federazione di atletica vietava alle donne di percorrere lunghe distanze e nelle stesse competizioni maschili. Al “sesso debole” non era permesso iscriversi a una maratona e ogni richiesta veniva puntualmente respinta.
La storia di Kathrine Switzer
Per correre 42 chilometri, però, è necessario avere coraggio più che un pettorale e Kathrine Switzer, studentessa universitaria appassionata di corsa, questo lo sapeva bene. Per aggirare il divieto la ragazza si iscrisse alla maratona di Boston dando solo le iniziali del proprio nome e cognome e così riuscì a ottenere il pettorale numero 261.
Camuffata da uomo, Kathrine iniziò la sua gara ma venne fermata da un organizzatore che si accorse dello stratagemma e cercò, anche con la forza, di trascinarla fuori dal percorso. Kathrine concluse la sua maratona in quattro ore e 20 minuti. Un anno prima, Roberta Gibb fu costretta a nascondersi tra gli alberi, nel boschetto vicino alla partenza. Si infilò tra i concorrenti, senza pettorale ufficiale, subito dopo lo sparo, e corse tutta la Boston Marathon.
Si dovrà attendere la maratona di New York del 1971 per assistere al cambiamento del regolamento che prevedeva l’inserimento ufficiale delle donne in gara.
Diversità strutturali e fiosiologiche
Sembrano tempi così lontani eppure sono passati solo 50 anni, durante i quali il numero delle maratonete è aumentato in maniera esponenziale, fino a essere il 45% degli iscritti di quella di Boston e il 40% di quella di New York. Le donne, oggi, corrono con gli uomini, quanto gli uomini ma registrando tempi ancora molto differenti. Nell’atletica leggera persistono differenze sostanziali tra le prestazioni femminili e quelle maschili, a vantaggio dei maschi. In particolar modo la diversità è visibile nelle discipline in cui la potenza muscolare ha un ruolo importante, riferisce Antonio Gianfelici, medico specialista in medicina dello sport e presidente dell’Associazione Medico Sportiva di Roma.
Qual è la vera differenza?
Ma concretamente a quanto ammonta la differenza? Parliamo di circa il 10% nelle discipline di corsa, fino ad arrivare al 15-20% nelle prestazioni di salto e lancio, continua l’esperto.
L’uomo è, in media, strutturalmente più alto, ha una massa muscolare più sviluppata e pertanto anche una forza maggiore. A queste diversità morfofunzionali se ne aggiunge anche un’altra, più nascosta, che influisce in maniera considerevole sulla fisiologia femminile. I livelli ormonali e il ciclo mestruale condizionano non solo le perfomance delle atlete ma anche il quantitativo del tessuto adiposo. Le donne ne possiedono 12%, il 5%, invece, l’altro sesso. Solo nelle prestazioni di lunga durata però, aggiunge lo specialista, le donne hanno una capacità di utilizzo dei grassi, a parità di percentuale di carico massimale, maggiore rispetto al “sesso forte”.
I record sportivi certificano il divario
Se si dà uno sguardo ai record di atletica è facile capire il gap. Il miglior tempo maschile al mondo in maratona è quello di Eliud Kipchoge con 2h 01’ 39”. Quello femminile lo detiene Paula Radcliffe con 2h15’25”. Il record mondiale maschile di salto in alto è di 2,45 metri mentre quello delle donne è di 2,09 metri. Numeri importanti ed eloquenti, soprattutto se si tiene in considerazione che a livelli professionistici non vi è una differenza di preparazione e di tecnica. Tutti gli atleti vengono seguiti e allenati nella stessa maniera e, pertanto, aggiunge Gianfelici, le differenze sono solo strutturali e fisiologiche.
Ci sono sport alla pari
Quindi le donne non riusciranno mai a essere più veloci degli uomini? Questa domanda se l’era posta, nel 1992, anche la rivista Nature arrivando a ipotizzare che nel 2156 le atlete avrebbero eguagliato, nei 100 metri, i loro avversari maschi. Nel corso di tutti questi anni, però, se è vero che le donne hanno fatto “passi da gigante” è altrettanto vero che i miglioramenti si sono stabilizzati, confermando quel 10% di scarto di cui ci aveva parlato Gianfelici.
Dopotutto, però, la volontà di equiparare le due categorie rischia di essere infruttuosa poiché sottolinea un divario fisiologicamente incolmabile e, inoltre, non mette il luce i risultati delle atlete. Anche perché, esclusa la variabile fisica, esistono discipline sportive nelle quali i due generi si danno del filo da torcere alla pari. Un esempio ce lo fornisce il mondo degli sport equestri che prevedono la competizione diretta tra uomini e donne, sia nel caso si tratti di principianti sia di partecipanti ai Giochi olimpici.
Le ultramaratone, terreno delle donne
Nonostante numeri e pareri dei medici siano concordi nell’affermare la supremazia fisica dell’uomo rispetto alla donna nelle classiche gare dell’atletica leggera, esiste però sorprendentemente una distanza nella quale le donne sono più forti degli uomini: le ultramaratone.
Jasmin Paris, atleta britannica, 35 anni, un dottorato di ricerca in medicina all’Università di Edimburgo, ha vinto la Montane Spine Race, definita come la più “brutale”tra le ultramaratone (prevalentemente trail su sterrato) che si svolgono nel Regno Unito, percorrendo 431 chilometri in poco meno di tre giorni e mezzo. Ha lasciato dietro tutti, maschi e femmine, migliorando di ben 12 ore il record della gara.
E ancora nel 2017 Courtney Dauwalter vinse la Moab 240 Race lungo le rive del Colorado. Il secondo, un uomo, era a più di dieci ore di distanza da lei. Insomma, quando le cose si fanno davvero difficili il “gentil sesso” sembra prendere il posto di quello “forte”.
Al giorno d’oggi non ci sono ricerche scientifiche che confermino la supremazia femminile rispetto a quella maschile in questa specifica disciplina, afferma lo specialista. Si potrebbe ipotizzare, però, che la migliore attitudine femminile di utilizzare il grasso corporeo e la determinazione psicologica nell’affrontare le difficoltà possono essere le chiavi del successi di queste donne, conclude Gianfelici.
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