Oltre al lavoro c’è di più. Si potrebbe trovare la spiegazione nel fatto che siamo più stressati, stanchi o disillusi, nello smart working o nelle dimissioni di massa. A prescindere dai motivi, sembra proprio che l’abbandono silenzioso della carriera sia sempre più diffuso, in particolare tra i giovani. Ecco cos’è il quiet quitting.
In questo articolo
Cosa significa “quiet quitting”?
Con l’espressione quiet quitting si indica il fenomeno per cui i dipendenti adempiono alle loro mansioni lavorative, compiendo però solo le attività che sono strettamente necessarie. Consiste nell’attenersi ai compiti e agli orari previsti dal proprio contratto di lavoro, senza fare straordinari o assumersi ulteriori responsabilità. In sostanza, è un’inversione di rotta rispetto all’approccio passato in cui ci si dedicava completamente al lavoro ad ogni costo. I motivi alla base di questo cambiamento di attitudine possono essere molteplici.
Il lavoro non è più il centro della vita
Dal report di Gallup, State of the global workplace 2022, si rileva che solo il 14% dei dipendenti in Europa è davvero coinvolto sul lavoro. Gli individui sono meno disposti a dedicarsi completamente all’azienda e stanno rimettendo al centro le relazioni e il proprio benessere.
A fare da cassa di risonanza al fenomeno, come spesso avviene, sono stati i social network e soprattutto TikTok. Il tag #quietquitting ha milioni di visualizzazioni sulla piattaforma e i giovani della Generazione Z sono quelli che stanno sperimentando di più questa nuova cultura del lavoro, lontana da quella delle generazioni precedenti.
Inoltre, nel periodo post-pandemico molte persone hanno sentito il bisogno di trovare un maggiore equilibrio tra vita privata e lavorativa.
Quiet quitting: quando il lavoro non soddisfa
Ma il quiet quitting potrebbe essere, allo stesso tempo, il sintomo di un senso di insoddisfazione o malessere sul posto di lavoro. Il disimpegno del lavoratore non riguarda solo l’attività da svolgere in senso pratico, ma è anche psicologico. Si può essere fisicamente presenti ma non sentire alcun coinvolgimento con ciò che si sta facendo.
Questo complessivo calo di interesse può collegarsi a fattori come la chiarezza delle aspettative, le opportunità di apprendimento e crescita, il sentirsi presi in considerazione, il legame che si ha con la missione o lo scopo dell’organizzazione e la disconnessione tra dipendenti e datori di lavoro.
Un altro modo di evitare il burnout?
Il quiet quitting è anche un modo di reagire in prevenzione di un burnout, meno drastico rispetto alla “great resignation”, in cui si decide di dimettersi definitivamente. Secondo un’indagine dell’EU-OSHA, il 44% dei lavoratori afferma che lo stress da lavoro è aumentato a seguito della pandemia. Quasi la metà, il 46%, ha dichiarato di essere esposta a una forte pressione del tempo o a un sovraccarico di lavoro.
Quiet quitting in azienda: come si può affrontare?
«Che si tratti di una reazione per evitare il burnout o una scelta che deriva da una attitudine diversa al lavoro, con tutta probabilità il quiet quitting è qui per restare. L’epoca del lavoratore che si immola volontariamente a una disponibilità illimitata e costante è finita», spiega Alisia Galli, Psicologa Clinica e Leader Pillar Mentale di Fitprime.
«Questo non è necessariamente un male per il datore di lavoro che ascoltando da vicino le esigenze dei suoi dipendenti potrà avere con sé persone meno sull’orlo della crisi e nell’insieme più soddisfatte. Quindi più creative, performanti e disposte a restare. Il concetto di “quiet quitting” promuove un approccio attivo e consapevole per affrontare il sovraccarico e lo stress. Porta la persona a dare importanza al proprio benessere mentale e fisico. La chiave è, come accennato, l’ascolto».
«Il quiet quitting potrebbe essere un segnale che un dipendente non è felice nella sua posizione. Non è detto che in questa situazione non si possa trovare una soluzione che soddisfi sia le necessità aziendali sia quelle del dipendente. Se l’”abbandono silenzioso” è invece il sintomo di una vicinanza al burnout, è chiaro che l’azienda deve intervenire per garantire la salute mentale del proprio lavoratore. Per convivere con questo fenomeno è importante per i datori di lavoro non osteggiarlo, ma comprenderlo e gestirlo».
Sviluppare una cultura aziendale che promuova il benessere
Per riuscire in questa impresa non semplice è importante avere gli strumenti adatti, sia culturali che pratici.
In primis, le aziende dovrebbero sviluppare una cultura aziendale in cui si promuova il benessere, l’importanza di prendersi del tempo per sé e di praticare l’autocura.
Azioni pratiche per supportare i lavoratori
Alisia Galli specifica che al contesto culturale andrebbero affiancate delle azioni pratiche che spingano i lavoratori a ristabilire il bilanciamento tra vita privata e lavoro. «Non è un caso che sempre più aziende stiano inserendo il wellbeing dei dipendenti all’interno della propria strategia di responsabilità sociale d’impresa. Tra le azioni possibili ci sono strumenti che aiutano le persone a prendere consapevolezza del proprio livello di stress».
«Ad esempio, gli assessment game, videogiochi basati su parametri psicometrici che restituiscono un’idea dello stato di disagio e anche di eventuale burnout della persona. Un esempio italiano è il gioco WorkDown lanciato dalla startup Game2Value. O ancora, strumenti che supportano i lavoratori nel loro benessere psico-fisico attraverso agevolazioni per lo sport, la nutrizione e la salute psicologica. Tra questi ci siamo noi di Fitprime con la nostra missione di promuovere uno stile di vita sano e attivo anche per i dipendenti delle aziende».
«Tutto questo può contribuire a creare ambienti di lavoro più sani e dipendenti più sereni. Soprattutto, un contesto il cui il quiet quitting possa finalmente essere visto e vissuto in termini positivi. Ovvero come il
ritorno a un mondo del lavoro meno frenetico che favorisca momenti di pausa per ricaricare le energie,
riflessioni su obiettivi e interessi personali, cura della salute fisica e mentale».
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