Correva l’anno 1961. Avevo cominciato da poco la prima elementare quando mi sono ammalato di epatite B. Mi ero riempito di macchie giallastre nella parte inferiore della lingua, di color limone erano anche la sclera dell’occhio e la pelle. Il fegato? Ingrossato. Come abbia preso il virus resta un mistero. Tuttavia, anche se non ci sono prove certe, è probabile che sia stata una conseguenza dell’uso di apparecchiature sanitarie non adeguatamente sterilizzate quando mi hanno rimosso le tonsille. Per farla breve, al medico è bastato guardarmi in faccia e toccarmi l’addome, senza nemmeno sottopormi agli esami, per farmi ricoverare immediatamente.
Sono stato in “isolamento”
Non solo la degenza è durata quasi sei mesi ma, oltretutto, sono stato confinato nel reparto degli infettivi dell’ospedale Niguarda di Milano. Ovvero, in totale isolamento. Oggi una misura del genere è anacronistica, ma ai tempi le nozioni sull’epidemiologia delle malattie da infezione erano ancora limitate. Sta di fatto che dormivo in una camerata con altri adulti infetti: soltanto il personale medico era autorizzato a entrare nella stanza. Le visite di parenti e amici avvenivano da dietro un vetro. Curiosamente, nonostante il clima non proprio allegro e la morte improvvisa di un mio compagno di stanza, non ricordo con angoscia quelle 24 settimane.
Una giornata di digiuno fa bene
La cosa peggiore era il cibo, scarso e scondito. Ancora oggi, ogni volta che intingo nel tè una fetta di pane, mi tornano in mente i crostini abbrustoliti serviti in ospedale con l’infuso. Tuttavia, nel complesso, quel periodo è passato piuttosto velocemente. Merito anche della mia maestra, la mitica suor Natalina dell’Istituto Santa Dorotea di Cemmo, che veniva a trovarmi quasi tutti i giorni per impartirmi lezioni in ospedale e non farmi restare indietro rispetto ai compagni di scuola. E i suoi sforzi non sono stati inutili: una volta dimesso, ho chiuso l’anno scolastico senza difficoltà.
Cosa mi ha lasciato l’epatite B
Le conseguenze dell’epatite B, però, non sono state leggere. Per tutta la vita ho dovuto sottopormi con regolarità a esami specifici. E, soprattutto, guai a toccare alcolici, salame, cibi conditi con il burro e fritti. Se mi capitava di sgarrare, il giorno dopo pagavo le conseguenze con gli interessi. Sono trascorsi oltre 45 anni prima che il fegato tornasse a essere perfetto. Solo allora nelle mie cene sono riapparsi vino e insaccati. Con moderazione, intendiamoci. E, anche se a volte esagero, nel tempo ho imparato che non c’è nulla di meglio di una giornata di digiuno totale per rimettere in sesto l’organismo.
Massimo Bernardini (testimonianza raccolta da Nicole Cavazzuti per OK Salute e Benessere)
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