«Mi avevano dato 48 ore di vita» racconta la conduttrice e blogger Andrea Lehotskà a OK Salute e Benessere, ricordando la sua esperienza tra ospedali e sofferenza. Ecco la sua intervista.
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Ho contratto un’infezione tropicale
Anche se sono nata il 2 dicembre, ormai festeggio il mio compleanno ogni 22 di novembre. È la data del mio ricovero in ospedale nel 2016: uno shock da setticemia legato a un’infezione tropicale a oggi sconosciuta si stava mangiando il mio corpo. Riduzione del 98% dei polmoni, reni andati, sistema immunitario totalmente ko (tanto che all’inizio si pensava avessi l’Hiv)… Stando agli esiti di tutti gli esami a cui ero stata sottoposta, avrei dovuto essere già morta, invece io ero lì, con gli occhi ben spalancati, seduta nella stanzetta dove ero stata messa in quarantena. Non essendo più in grado di parlare, scrivevo bigliettini ai medici: «E ora che si fa?».
Mi hanno detto di fare testamento
I miei familiari mi guardavano, piangendo, dalle vetrate della camera. Finché un professore non mi aveva comunicato che mi restavano al massimo 48 ore di vita e che avrebbero iniziato la terapia, prevista in questi casi, a base di antidepressivi: «Si organizzi con il testamento e con quant’altro debba mettere a posto». Non so come mi sia venuto in mente, ma per prima cosa ho disdetto via email l’abbonamento telefonico e, subito dopo, l’affitto del mio appartamento milanese. Non volevo lasciare debiti e, comunque, nella mia testa non prendevo in considerazione l’idea della morte. Poi ho firmato i consensi sia a donare il mio corpo alla scienza per essere analizzato sia a che mi venisse iniettato un miscuglio di sette farmaci, tra antibiotici, antivirali e antimicotici (non c’era il tempo di provarli uno per uno), che avrebbe potuto accelerare la mia fine o rallentare il «mostro» che mi stava divorando. E incredibilmente sono guarita. Dico «incredibilmente» perché tuttora i medici non riescono a capacitarsi di come sia potuto succedere e le mie radiografie sono oggetto di studi universitari.
Tutta colpa di un virus misterioso
L’infezione che mi ha colpito non ha, infatti, un nome né è stata individuata la causa: all’epoca avrebbero dovuto fare le emocolture, ma per avere i risultati occorrono sette-otto giorni, quando a me non ne davano più di due. Forse potrebbe essere stata conseguenza dell’incidente in motorino di sei mesi prima in Sri Lanka, quando, per disinfettare la ferita alla gamba, avevo usato la lama di un coltello da caccia arroventata con l’accendino. Magari nel mio organismo si era insinuato un virus o un batterio che era rimasto passivo per attivarsi al contatto con lo streptococco e lo pneumococco europei. Non si sa, ma io, come canta Vasco Rossi, sono ancora qua.
Mi sono trasferita su una spiaggia… Per aspettare la morte
Tuttavia gli strascichi della setticemia non sono stati lievi, dalla perdita dei capelli all’artrosi alle dita delle mani fino alla claustrofobia. Paura, quest’ultima, che ho vinto in una escape room di Dubai, negli Emirati Arabi. Si tratta di un gioco di fuga dove sono stata richiusa al buio in una stanza piccolissima, le mani legate dietro la schiena e un sacco in testa. Sono stati venti minuti terribili, ma ce l’ho fatta e questa esperienza mi ha insegnato che è possibile riuscire a controllarsi ed essere un po’ più razionali, perché la paura nasce nella nostra testa e da lì deve uscire. So che un giorno tutto questo mi servirà. Come avrete capito, amo viaggiare e la prescrizione più dura dopo l’infezione è stata quella di restarmene buona buonina a casa, altrimenti avrei rimesso la mia vita in serio pericolo. Dopo tre o quattro mesi, però, non ce l’ho fatta più. Meglio morire felici in mezzo alla natura di quell’Asia che tanto mi affascina, piuttosto che tirare a campare tra quattro mura a Milano. Così ho preso un biglietto di sola andata per la Thailandia e mi sono stabilita sulla spiaggia di un’isola deserta, in attesa che il mio destino si compisse. Ma… niente. Dopo sei settimane mi sono rotta le scatole: «Magari muoio un’altra volta». E sono ritornata in Italia con l’intenzione di riprendere a viaggiare seriamente.
Ora scalo le montagne per testare i polmoni
L’idea era quella di un giro in autostop tra Armenia, Azerbaijan e Georgia, prima, tuttavia, c’era da capire a che punto fosse la rigenerazione dei miei polmoni. Non volevo sottopormi a nuove radiografie, che avrebbero distrutto il tessuto che faticosamente stava ricrescendo, e ho chiesto consiglio a mio padre, medico di professione. Alla fine, come prova, abbiamo deciso di scalare insieme i 4000 metri del monte più alto dell’Armenia, l’Aragats. Avevo la lingua che, come nei personaggi dei cartoni animati, mi penzolava fino a toccare terra, facevo una fatica tremenda a recuperare il fiato, ma continuavo a ripetermi: «Devi farcela! Devi farcela!». Ho impiegato sei ore e mezza, quando ora lo farei in tre, ma alla fine sono arrivata in cima, a una quota dove, tra l’altro, l’aria è rarefatta. Sono scoppiata a piangere. Per la felicità. È da questo episodio che mi è venuta l’attuale fissa per le scalate e il trekking. Perché lo faccio? Perché mi metto in situazioni a rischio? Me lo chiedono sovente gli amici, ma me lo sono domandata anch’io lo scorso agosto, rannicchiata dentro la mia tenda ai 2.800 metri sulle montagne dell’Iran mentre fuori si aggirava un gruppo di iene. La risposta: perché ho bisogno di sapere di essere in grado di controllare i miei limiti, spostandoli sempre un po’ più in avanti. Di controllare il mio corpo e la mia mente. Di dirmi, quando, per esempio, mi fanno male le gambe per il tanto camminare: «Non pensarci, devi arrivare là».
Ho bisogno di sfidare me stessa
Sì, ho la necessità di essere così tanto sicura di me, così forte da potercela fare da sola, senza che sia sempre qualcuno che mi inciti a reagire. È una sfida con me stessa. Del resto, non c’è niente che io possa fare per evitare di essere nuovamente colpita dalla misteriosa infezione, se non sottoponendomi a esami ogni tre mesi e curando particolarmente il mio sistema immunitario con un’alimentazione sana a base di frutta e verdura e tanta attività fisica. Però io riesco a muovermi solamente quando viaggio: odio la palestra e in città mi sento prigioniera (lo scorso anno a Milano sarò stata sì e no trenta giorni, poi mi sono trasferita ai 3mila metri in Svizzera). Intanto, il 22 novembre, festeggio il terzo compleanno dalla mia rinascita. I medici che mi hanno curato mi chiameranno come d’abitudine per farmi gli auguri, increduli del fatto che sia viva.
Andrea Lehotskà (Testimonianza raccolta da Marco Ronchetto)
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