L’emergenza Covid-19 ha rimesso l’uomo occidentale come mai prima dalla fine della II Guerra Mondiale di fronte al pericolo che rappresentano le malattie infettive, soprattutto in un mondo globalizzato dove gli spostamenti e i contatti da un capo all’altro del pianeta sono facili e frequenti. Grazie alla scoperta dei vaccini e degli antibiotici, questo tipo di patologie, che hanno fatto da sempre parte della storia umana costituendo per millenni la prima causa di mortalità, erano state quasi dimenticate nei Paesi più avanzati: ci ha pensato il Sars-CoV-2, il coronavirus causa appunto del Covid, a riportarci bruscamente alla realtà.
Perché «questa non sarà certo l’ultima epidemia, sappiamo che sicuramente ne arriveranno altre, ma non quando», come spiega Ivan Gentile, professore ordinario di Malattie Infettive presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II e direttore dell’Unità operativa complessa di Malattie Infettive dell’Azienda ospedaliera universitaria Federico II sempre del capoluogo partenopeo. «Le tre epidemie di coronavirus di questo inizio di terzo millennio, Sars, Mers e Covid-19, sono una dimostrazione della capacità dei virus di generare ceppi nuovi. Quando mi si domanda se il Sars-CoV-2 si sia originato in laboratorio, io rispondo di sì: nel laboratorio della natura. Quotidianamente avvengono migliaia di mutazioni in ogni virus e migliaia di ricombinazioni tra virus di animali diversi, uomo compreso.
Può, allora, capitare che tra i tanti rimescolamenti di questo laboratorio vivente che è la natura si generino “cocktail” micidiali capaci d’infettare l’uomo e portatori di elementi di novità per il nostro sistema immunitario. Così si originano le epidemie, che a volte diventano pandemie. È quello che, per esempio, succede con i virus influenzali, le cui sempre nuove mutazioni costringono a modificare il vaccino ogni anno».
Le possibili cause delle future epidemie sono, di fatto, le stesse del passato e tirano in ballo le zoonosi, cioè le malattie che si trasmettono dagli animali all’uomo, perlopiù in via indiretta. «Virus e batteri sono sempre passati dagli animali all’uomo, ma», precisa Nicola Decaro, professore ordinario di malattie infettive degli animali presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, «le epidemie e le pandemie arrivano probabilmente con la creazione delle prime aggregazioni umane, cioè le comunità agricole formatesi 10mila-8mila anni prima della nascita di Cristo». Gli animali che rappresentano i maggiori rischi di divenire serbatoi di virus trasferibili ad altre specie, tra le quali quella umana, sono i pipistrelli e i suini tra i mammiferi; gli uccelli; le zanzare, i flebotomi e le zecche tra gli artropodi.
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Pipistrelli, suini e uccelli: i serbatoi dei virus che passano all’uomo
«I coronavirus che colpiscono l’uomo – dai quattro endemici, associati a forme simil-influenzali, a quelli altamente patogeni, come Sars e Mers – hanno origine soprattutto nei pipistrelli», prosegue Decaro. «Sul fatto che questi mammiferi siano anche il serbatoio del Sars-CoV-2 non esistono al momento evidenze scientifiche definitive, tuttavia il virus più simile al responsabile del Covid è stato trovato proprio nei pipistrelli. E nel pangolino, il quale, però, s’ipotizza essere stato l’ospite intermedio, come lo zibetto delle palme per la Sars e il dromedario per la Mers, sempre che il suo virus non abbia subito un’evoluzione convergente con Sars-CoV-2, cioè che non abbiano accumulato indipendentemente le stesse mutazioni».
Per comprendere il perché Sars e Mers siano rimaste per lo più localizzate rispettivamente in Cina e Medioriente, senza dare luogo a pandemie, bisogna rifarsi al loro alto tasso di letalità (11% e 30%): «Le persone infettate da questi due virus non possono spostarsi con tanta libertà come gli asintomatici del Covid, in quanto sviluppano forme gravi della patologia o muoiono», spiega il virologo veterinario. «Lo stesso vale per Ebola, con tasso di mortalità del 50%, che sta causando importanti epidemie nell’Africa centroccidentale e del quale sempre i pipistrelli sono nicchia, al pari dei virus della rabbia (Lyssavirus)».
Nonostante in Italia quest’ultima patologia sia ormai eradicata, nel giugno dello scorso anno si è registrato il caso, fortunatamente senza contagi umani, di un gatto morto per il raro West Caucasian Lyssavirus. «Probabilmente un pipistrello infetto è arrivato nel nostro Paese da oriente ed è stato aggredito dal felino, trasmettendogli l’infezione», spiega Decaro. «La vicenda ha suscitato preoccupazione, perché il vaccino della rabbia classica sia per l’uomo sia per gli animali non dovrebbe proteggere da questo virus orientale». Restando tra i mammiferi, nota sempre il veterinario, «attualmente una specie sotto la lente d’ingrandimento per quanto riguarda l’emergenza di virus potenzialmente pandemici è quella dei suini. In Cina stanno circolando tra questi animali virus influenzali con caratteristiche che potrebbero adattarsi facilmente all’uomo».
Dai maiali, del resto, era già partita una pandemia nel 2009: l’influenza suina. «Originatasi in Messico al confine con gli Usa, è stata causata dal rimescolamento tra virus di diversa origine dovuto alla sensibilità dei suini ai virus influenzali sia degli uccelli sia dell’uomo, al quale questo nuovo virus si è, poi, adattato. Tuttavia la cosiddetta pandemia suina è stata caratterizzata da una mortalità bassissima, trasformandosi, dopo la prima ondata pandemica, in una banale influenza stagionale, grazie anche al veloce allestimento delle immunizzazioni, reso possibile da una tecnologia di produzione di vaccini antinfluenzali ormai consolidata da decenni».
Gli uccelli sono, invece, il serbatoio dei virus influenzali di tipo A, quelli che, assieme ai coronavirus, «hanno una maggiore attitudine al salto di specie. Storicamente», sottolinea Decaro, «quasi tutti i virus influenzali dell’uomo si sono originati, direttamente o indirettamente, negli uccelli, dalla Spagnola nel 1918, un virus H1N1 probabilmente trasmesso direttamente all’uomo senza alcun passaggio in altri animali, all’influenza aviaria entrata in Europa nei primi giorni del 2006, un H5N1 altamente patogeno non sfociato in pandemia perché non si è adattato bene all’uomo e, quindi, non è stato in grado di diffondersi in maniera efficiente».
Alimenti infetti, deforestazione e urbanizzazione: così nascono le epidemie
Il passaggio degli agenti patogeni di questi animali «serbatoio» all’uomo può sfociare in epidemie e pandemie grazie al loro utilizzo nell’alimentazione umana e al restringimento degli habitat naturali degli animali selvatici. «Pensiamo», ricorda l’esperto di malattie infettive degli animali dell’Università di Bari, «ai mercati di animali vivi molto frequenti in Asia e in Africa, ove si registra una grande promiscuità tra varie specie animali utilizzate per scopi alimentari e lo stesso uomo. Troviamo ammassati polli, anatre, carnivori selvatici, pipistrelli, che spesso vengono macellati sul posto in condizioni di scarsissima igiene, con sangue, feci e urine ovunque. E questo accade non in campagne sperdute, ma all’interno di metropoli nelle quali la trasmissione interumana è molto facile come Wuhan (11 milioni di abitanti), sede del primo focolaio di Covid-19.
Non per niente anche la Sars si è diffusa in Cina per la consuetudine di mangiare carnivori selvatici venduti vivi o macellati sul posto. Ebola, invece, è passato all’uomo attraverso le scimmie, cacciate da certe tribù africane per uso alimentare o per le loro presunte proprietà farmacologiche». A questo vanno aggiunte le crescenti deforestazioni e urbanizzazioni alle quali la Terra è sottoposta e che, spiega Decaro, «provocano un aumento dei contatti tra l’uomo e virus che in precedenza erano racchiusi in una loro piccola nicchia ecologica ben circoscritta».
Mutamenti climatici e trasporti globali: i viaggi del contagio di zanzare, flebotomi e zecche
È, invece, grazie sia ai cambiamenti climatici sia alla sempre più capillare rete mondiale dei trasporti che oggi più che mai gli artropodi non conoscono confini, viaggiando assieme alle merci da un punto all’altro del pianeta. «I vettori si muovono trasportando con loro i parassiti e, quando giungono in un luogo ove prima non erano presenti, possono cambiare l’epidemiologia e la distribuzione delle malattie parassitarie, causando problemi di salute pubblica», conferma Domenico Otranto, direttore del Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro e presidente della Società Mondiale di Parassitologia Veterinaria (WAAVP).
È il caso della zanzara tigre (Aedes albopictus). «Fino alla fine degli anni 80 del secolo scorso non era presente in Italia, poi è arrivata nel porto di Venezia assieme a un carico di copertoni da Atlanta, negli Usa, dove a sua volta era stata importata dall’Asia con un carico di piante. Avendo trovato le condizioni ideali di clima, nel giro di un decennio si è diffusa in tutto il Paese». La tigre è vettore dello Zika virus, che tra il 2015 e il 2016 ha colpito il Brasile costringendo l’Organizzazione mondiale della sanità a dichiarare un’emergenza di sanità pubblica internazionale, e, al pari della zanzara della febbre gialla (Aedes aegypti), di, appunto, febbre gialla, Dengue e Chikungunya.
Quest’ultima in lingua swahili significa «ciò che curva» o «contorce» per i forti dolori alle articolazioni che provoca; dalle zone tropicali africane e asiatiche la malattia è approdata nel 2007 in Emilia Romagna e nel 2017 nel Lazio e in Calabria. «In Italia l’arrivo della Aedes albopictus», continua il parassitologo, «ha comportato l’aumento anche di malattie del cane d’interesse zoonosico quale la dirofilariosi, in precedenza presente al Nord in quanto trasmessa primariamente dalla zanzara delle paludi, la Culex pipiens, e ora è divenuta endemica anche nel Centro-Sud, la principale area in cui la tigre si perpetua, colpendo anche l’uomo».
Sempre nel Meridione nel 2017 ci sono stati anche alcuni casi di malaria dovuti al Plasmodium falciparum, agente infettivo trasmesso dalle zanzare del genere Anopheles. «Certi politici, sostenuti anche da alcuni giornali, hanno affermato che fosse tutta colpa dei migranti appena sbarcati», tiene a precisare Otranto, «ma in realtà gli insetti infetti erano approdati in Italia molto probabilmente attraverso pacchi recapitati dal Centro Africa a persone che risiedevano nel nostro Paese da lungo tempo. Comunque si è trattato di un episodio sporadico, perché da un lato qui da noi la presenza delle Anopheles è molto limitata ed è legata soprattutto ad aree palustri, dall’altro le buone condizioni generali della popolazione dal punto di vista della nutrizione e dell’immunità non consentono il sorgere di focolai di malaria».
Dal Sud Italia e dalle Isole si è, per contro, espansa alle regioni del Nord la leishmaniosi viscerale, causata dal parassita Leishmania infantum, i cui vettori sono insetti chiamati flebotomi o pappataci. La malattia, che se non trattata può essere fatale soprattutto nei bambini e nei soggetti immunocompromessi, colpisce gli organi vitali del corpo ed è caratterizzata da periodi irregolari di febbre, perdita di peso, ingrandimento della milza e del fegato, anemia: si stima che ogni anno si verifichino a livello mondiale fra i 700mila e il milione di nuovi casi con un numero di decessi che va dai 26 ai 65mila.
Tra gli aracnidi, molta attenzione bisogna fare alle zecche, di cui vi sono parecchie specie, a partire dalla nota Rhipicephalus sanguineus (la zecca del cane). «Più pericolosa e decisamente meno conosciuta», avverte Otranto, «è, però, la zecca dei boschi (Ixodes ricinus), ora arrivata nel Centro e Sud Italia. Trasmette un batterio, la Borrelia burgdorferi, che provoca la malattia di Lyme, molto debilitante perché causa encefalite e artriti che si curano con molta difficoltà soprattutto in persone immunodepresse.
Purtroppo in Italia, soprattutto nel Meridione, non abbiamo alcuna cultura di prevenzione e gestione di tali punture, mentre, per esempio, in Germania all’ingresso dei boschi vi sono cartelli con le spiegazioni su come prevenirle. Con gli uccelli migratori è, inoltre, giunta in Europa una specie di zecca, la Hyalomma marginatum, che trasmette la Crimean-Congo Hemorrhagic Fever (CCHF), una febbre emorragica in origine descritta in Crimea dalla sintomatologia molto importante per l’uomo». Nel 2016 sono stati registrati due casi a Madrid, mentre in precedenza la CCHF era comparsa in alcuni Paesi balcanici, in Turchia, nelle regioni sud-occidentali della Russia e in Ucraina, con tassi di mortalità elevati.
Ma i pericoli maggiori sono i batteri resistenti agli antibiotici
Tuttavia già oggi esiste un pericolo ben maggiore della naturale capacità dei virus di rimescolarsi per dare origine a nuovi ceppi potenzialmente pandemici: i batteri multiresistenti, cioè non sensibili agli antibiotici. «E in questo caso, a differenza delle ricombinazioni degli agenti patogeni che sono difficilmente prevenibili», avverte Gentile, «l’uomo ci ha messo lo zampino. Nonostante lo stesso Alexander Fleming, il premio Nobel scopritore della penicillina, avesse messo in guardia da un loro utilizzo indiscriminato, gli antibiotici spesso sono ritenuti farmaci per tutte le occasioni, quasi da banco. Invece, più li si utilizza e più aumenta la resistenza di quei germi che, poi, possono risultare letali per l’uomo. Le previsioni ci dicono che nel 2050 avremo 10 milioni di morti all’anno per l’antibiotico-resistenza, superando addirittura i decessi dovuti al cancro».
L’emergenza, però, è già iniziata, soprattutto in Italia. «L’antibiotico-resistenza pare la causa principale di circa 33mila decessi in Europa ogni anno, di cui circa 10mila solo in Italia», snocciola i dati Vito Felice Uricchio, del CNR IRSA e membro del Comitato scientifico della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA). «La dimensione del problema è decisamente ampia, l’impatto numerico è paragonabile a quello cumulativo dell’influenza convenzionale, della tubercolosi e dell’Hiv/Aids. Tra l’altro, studi sempre più frequenti ci fanno comprendere come segmenti di Dna (plasmidi) che conferiscono resistenza ai farmaci possono saltare con disarmante facilità da un ceppo di batteri a un altro: una scoperta sconcertante che ci priva di armi potenti contro numerose malattie».
L’emersione dei microrganismi farmaco-resistenti è determinata dall’utilizzo massivo o incongruo degli antibiotici non solo nell’uomo ma anche negli animali e in agricoltura. «L’impiego eccessivo negli allevamenti sta trasformando gli animali in fonte di microrganismi letali, come lo Staphylococcus aureus, resistente a diverse classi di antibiotici», prosegue Uricchio. «Dagli animali, poi, i germi si diffondono nell’aria, nei terreni coltivabili, nell’acqua, nei nostri piatti e nei nostri ospedali. Sono, per esempio, stati individuati microbi farmaco-resistenti nell’aria dell’abitacolo di un’autovettura che aveva percorso un tratto di strada dietro un camion che trasportava del pollame.
Certo, in questi ultimi anni le vendite complessive di antibiotici veterinari in Europa sono diminuite – di oltre il 32% tra il 2011 e il 2017 – e anche in Italia sono calate (-35% rispetto al 2010), ma nel nostro Paese i valori restano alti e ci collocano al secondo posto, dopo la Spagna, in termini assoluti e sempre al secondo posto, dopo Cipro, se il calcolo delle vendite è fatto in rapporto alla popolazione animale». L’impiego spesso smodato di antibiotici nel settore zootecnico intensivo, utilizzati sia per la prevenzione di malattie che per favorire l’ingrasso delle specie allevate, influisce anche sulla sicurezza delle risorse idriche. «In Italia», ricorda il presidente del Comitato Scientifico SIMA, «si registra un significativo impatto sia nelle acque reflue urbane che nelle acque superficiali e sotterranee. In particolare nelle acque si rinvengono determinanti di resistenza quali molecole di antibiotici, geni di resistenza, batteri resistenti e plasmidi».
Fuori dal nostro Paese va segnalato il recente caso di New Delhi, circa 22 milioni di abitanti: «Nel sistema di distribuzione dell’acqua della capitale indiana sono stati rinvenuti “superbatteri”, come il New Delhi metallo-betalactamase (NDM1), già isolato, che è risultato essere resistente a tutte le terapie antibiotiche. La diffusione di questo batterio potrebbe portare conseguenze devastanti per la popolazione, spianando la strada alla diffusione di malattie come colera e dissenteria, per le quali i farmaci attualmente utilizzati non costituirebbero più un’arma di contrasto».
In questo modo le acque e l’ambiente antropizzato diventano una riserva a lungo termine di resistenze di origine antropogenica che produce come effetto l’inefficienza degli antibiotici. «E», rimarca con forza Uricchio, «in ambienti particolarmente ricchi di germi, come reflui, fanghi e rifiuti, è ancora più semplice per i batteri condividere i plasmidi, divenendo sempre più resistenti a più classi di antibiotici. Per questo motivo, se non vogliamo rinunciare a validissimi antibatterici, dobbiamo tutelare l’ambiente».
I medici dell’uomo collaborino con i veterinari
Proprio la tutela dell’ambiente e degli animali implica il concetto di One Health. La salute è unica. «Quelle dell’uomo, degli animali e dell’ambiente», lo spiega Decaro, «sono strettamente interconnesse per il continuo passaggio di agenti patogeni tra queste realtà, tanto che oggi si parla anche di salute circolare». «La visione antropocentrica che ci portava a considerarci diversi dagli altri animali anche nell’ambito della medicina non ha più senso», interviene Otranto. «L’approccio inteso come One Health è stato promosso per primo dall’epidemiologo veterinario statunitense Calvin W. Schwabe (1927-2006) con il libro, pubblicato nel 1969, Veterinary medicine and human health, in cui evidenzia l’importanza della collaborazione tra medicina umana e veterinaria».
Le malattie parassitarie, per esempio, sono ancora oggi poco conosciute dai dottori dell’uomo e la stessa virologia è una sola scienza. «Per questo», asserisce Decaro, «il ruolo del veterinario è importante nel controllo delle pandemie. I virus che le causano derivano sempre dal mondo animale, quindi non basta affrontare il problema dal punto di vista della medicina umana, ma occorrono anche la prevenzione, vale a dire impedire o limitare le probabilità che gli agenti patogeni possano effettuare il salto di specie dagli animali all’uomo, e il monitoraggio di quello che avviene in ambito animale una volta che la pandemia si è creata. Per restare all’attuale emergenza, sappiamo che i mustelidi (visoni, faine, furetti) sono estremamente sensibili al Covid-19, con il rischio che si possa instaurare un ciclo selvatico dell’infezione, cioè che il virus possa perpetrare l’infezione in questi animali, facendole diventare specie serbatoio».
Del resto l’approccio One Health vale anche per l’antibiotico-resistenza, sebbene finora sia stato poco recepito. «L’Italia», fa notare Uricchio, «nel 2017 si è dotata del Piano nazionale di contrasto dell’antimicrobico-resistenza (PNCAR) 2017-2020, che, pur definendo una serie di misure corrette e pertinenti, non considera nella loro globalità aspetti più ambientali legati, per esempio, allo smaltimento/trattamento delle acque reflue urbane, a pratiche agronomiche legate allo spandimento di letami zootecnici in ambito agricolo o alla diffusione aerea». Insomma, l’emergenza Covid-19 ha messo l’uomo di fronte alle sue responsabilità e ora è il momento di fare scelte, da troppo tempo rimandate, che determineranno la vita non solo nostra ma anche delle generazioni a venire.
«Il futuro può riservarci nuove pandemie, superinfezioni da batteri resistenti, eventi climatici estremi», conclude Alessandro Miani, presidente SIMA. «Siamo a un bivio e dobbiamo cambiare il decorso della nostra storia. Come? Cambiando il nostro modello di sviluppo attraverso una rapida transizione verso fonti energetiche rinnovabili, dando avvio a un piano straordinario di disinquinamento del suolo e delle falde acquifere, di messa in sicurezza delle infrastrutture e degli edifici, ivi compresa la messa in sicurezza sismica e dagli eventi estremi. Disincentivando le attività produttive che maggiormente contribuiscono alla crisi climatica, come l’agricoltura e gli allevamenti intensivi e altri processi produttivi eccessivamente inquinanti, favorendo la loro conversione basata su un’economia circolare».