Non solo che cosa si mangia, ma anche quando si mangia. La scienza ormai non ha più dubbi: saltare i pasti, sedersi a tavola a tarda sera e distribuire in modo errato l’apporto calorico lungo la giornata influiscono negativamente sulla salute, perché ci sfasa rispetto ai tempi dettati dal nostro orologio biologico «interno», regolato principalmente dall’alternanza tra luce e buio (i cosiddetti ritmi circadiani). In questi casi, sottolinea il gastroenterologo Silvio Danese, responsabile del Centro per le malattie infiammatorie croniche dell’intestino dell’ospedale Humanitas di Milano, «il metabolismo può subire alterazioni e portare, per esempio, all’aumento di peso. Inoltre si rischia di avere maggiori disturbi digestivi, come reflusso e dispepsia».
Dieta sregolata: cuore e metabolismo a rischio
L’American Heart Association, nel rapporto datato 2017 pubblicato su Circulation, associa la distribuzione degli stessi pasti anche al rischio cardiaco, che per chi ha l’abitudine di non fare colazione è superiore del 27% rispetto alla media, con un 18% d’incidenza in più di ictus. Alle stesse conclusioni sono giunti i ricercatori inglesi del King’s College di Londra: uno studio pubblicato dall’International Journal of Obesity inserisce anche il diabete, oltre a malattie cardiovascolari, pressione alta e obesità, tra i pericoli di un’alimentazione sregolata cronologicamente.
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A che ora bisogna mettersi a tavola?
La domanda regina, quindi, è: esistono orari precisi su cui puntare la sveglia per sedersi a tavola o concedersi uno spuntino? La risposta è: no. C’è, però, una condizione temporale di base irrinunciabile: «Non è determinante se si fa colazione alle 6 piuttosto che alle 9 e se si pranza alle 12 o alle 14», spiega Andrea Ghiselli, dirigente di ricerca del Centro di ricerca Crea alimenti e nutrizione e presidente della Società italiana di scienze dell’alimentazione (Sisa). «L’importante è che la maggior parte – circa il 60% – del fabbisogno calorico quotidiano venga consumato nella prima parte della giornata, cioè generalmente entro le 15. In pratica, dell’apporto energetico medio di 2000 chilocalorie al giorno a noi necessario, il 25% deve essere introdotto tra la colazione e lo spuntino di metà mattinata, il 35-40% con il pranzo e restante il 35-40% attraverso la merenda di metà pomeriggio e la cena».
La colazione dà benzina al cervello
La colazione appena svegli, soprattutto, è fondamentale per immagazzinare «benzina»: «Mai saltarla», avverte Danese. «Il cervello “rallenta” se non riceve glucosio per oltre 16 ore». Ma è anche il pasto sul quale i nutrizionisti sono meno restrittivi: «Se quando ci svegliamo proprio non abbiamo fame», concede come deroga estrema Ghiselli, «piuttosto che saltare del tutto la colazione, possiamo limitarci a un biscotto e un caffè prima di andare al lavoro, a patto di completare entro metà mattina – normalmente verso le 10.30 – quel 25% di apporto calorico giornaliero che in linea generale andrebbe suddiviso nel 20% a colazione e nel restante 5% con il successivo spuntino».
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I pasti ritardati sono nemici del girovita
È sconsigliabile, invece, pranzare e, di conseguenza, cenare tardi. «Chi mangia a tarda sera», conferma il presidente Sisa, «ha la tendenza a mettere su qualche chilo in più a causa dei ritmi circadiani degli ormoni correlati al metabolismo di zuccheri e grassi. E uso il termine “tendenza” non a caso, perché, poi, in definitiva, a fare la differenza è sempre la quantità di cibo che s’ingerisce». Una ricerca del Brigham and Women’s Hospital di Boston (Usa) e dell’Università della Murcia (Spagna), pubblicata nel 2013 sull’International Journal of Obesity, ha evidenziato come anche chi pranza dopo le 15 metta a rischio il girovita. Dei 420 volontari, tenuti a regime alimentare controllato per venti settimane, chi ha anticipato il pasto ha perso in media 11 chili, cioè 2,5 in più dei ritardatari.
Non più di 4 ore senza cibo
In quanto alla distanza oraria tra un pasto e l’altro non c’è una regola specifica. «La digestione si completa in un paio d’ore, ma non c’è un tempo consigliato», dice il gastroenterologo di Humanitas, che, comunque, precisa che «sarebbe bene non digiunare per oltre quattro ore. Meglio mangiare poco e spesso». Ghiselli, da parte sua, porta un esempio pratico: «Se si fa colazione alle 7, si può pranzare alle 13, ma è allora importante consumare uno spuntino a metà mattina che, da un lato, non sia così impegnativo da comportare un difetto di appetito a pranzo ma, dall’altro, neppure talmente ridotto da far sì che, poi, ci si sieda a tavola affamati».
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Hai fame? Qualcosa non funziona
Proprio il senso della fame può rivelarsi un utile indicatore sulla correttezza del nostro regime alimentare. «Innanzitutto», prosegue il nutrizionista, «bisogna fare molta attenzione a distinguere la fame reale da quella determinata dalla gola. Se abbiamo veramente fame, è il segno che qualcosa nella suddivisione dell’introito energetico durante i pasti non è andata bene». Spesso è dovuta a una colazione scarna: «Combattendo contro lo spauracchio della bilancia, non ci rendiamo conto che al mattino consumiamo molte meno calorie del necessario. Prendere una tazza di latte intero e una fetta biscottata con marmellata sovente non è sufficiente per raggiungere quota 400 chilocalorie, cioè il consigliabile 20% del fabbisogno medio giornaliero (2000 chilocalorie). Allora sarebbe meglio, per esempio, puntare su un cornetto, anche perché è sempre preferibile “caricare” la colazione piuttosto che il pranzo o la cena».
II dubbi sul valore “orario” degli alimenti
Resta, infine, da capire se il valore nutrizionale di un alimento sia uguale a ogni orario di consumazione. Negli anni 80 del secolo scorso, in effetti, il nutrizionista e geriatra francese Alain Delabos ha creato la crononutrizione, un metodo che autorizza a mangiare ciò che si desidera ma solo in determinati momenti della giornata: i grassi saturi, come il formaggio, esclusivamente al mattino; la carne e i carboidrati a mezzogiorno; un dolce a merenda; pesci o frutti di mare a volontà, carni bianche e verdure in quantità ragionevole alla sera. Nel 1992, invece, sono stati due medici italiani, Mauro Todisco e Paolo Marconi, a ideare la cronodieta, che unisce ai bioritmi circadiani il principio secondo cui le ripercussioni dello stesso alimento sul peso corporeo sono diverse a seconda di quando lo si consuma. Ma in questo campo, fa notare il nutrizionista del Crea, la letteratura scientifica è a oggi ancora discorde: «Ci sono studi che indirizzerebbero al consumo di carboidrati a pranzo e proteine a cena, implicando quindi una specie di dissociazione, ma contemporaneamente altri sostengono che non cambia nulla, cioè che una pasta mangiata a pranzo ha lo stesso valore che se mangiata a cena, purché l’apporto calorico sia adeguato al fabbisogno».
Frutta e verdura senza tempo
La soluzione migliore, per Ghiselli, è quella di introdurre ogni volta «una quantità equilibrata di tutti i nutrienti, senza preferire uno specifico momento della giornata. In linea generale, tenendo presente la sopracitata suddivisione calorica, è preferibile consumare pasti che contengano tutti i nutrienti: 55% di carboidrati, 30% di grassi e 15% di proteine, che, tra l’altro, danno senso di sazietà. Chiaramente è impossibile sedersi a tavola con il bilancino, ma, fermo restando che vegetali e frutta non devono mai mancare, a colazione si potrebbe optare per cappuccino con o pane, burro e marmellata o cornetto o ciambellone (è l’unico pasto della giornata in cui è concesso il dolce); a pranzo per una pasta o un panino in ottica carboidrati (complessi); a cena ancora una pasta oppure un secondo con il pane». Danese propende, invece, per un consumo di «carboidrati decrescente nel corso della giornata: “colazione da re, pranzo da principe, cena da povero”».
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