Acidificanti, conservanti, coloranti, dolcificanti… La lista degli additivi alimentari sui prodotti che acquistiamo al supermercato occupa una buona parte dell’etichetta nutrizionale. Ma che relazione c’è da queste molecole e la nostra salute? Di recente, è finito sotto la lente d’ingradimento di un team di scienziati dell’UT Southwestern Medical Center di Dallas il fosfato inorganico.
Fosfati naturali e inorganici
Negli alimenti i fosfati possono essere presenti naturalmente (il fosforo del cibo) in forma organica, oppure in forma artificiale aggiunta, forma inorganica. I secondi sono immediatamente assimilati dal corpo umano, fino all’80%, mentre quelli naturali lo sono in misura minore, ciop fino al 40%-50%.
A cosa serve il fosfato inorganico?
Il ruolo dei fosfati può essere acidificante (per fini di conservazione: bloccano la proliferazione di lieviti, muffe e batteri), antiossidante, addensante (nei formaggi, ad esempio, e nei salumi). Inoltre possono essere usati come lievitanti (in panetteria) e antiagglomeranti.
Fosfato inorganico: un vecchio imputato
Non è la prima volta che la comunità scientifica si esprime su questo additivo alimentare: nel 2013 l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ha confermato che il rischio di malattie cardiovascolari e morti per infarto aumenta se si adotta una dieta ricca di fosfati, ma solo nei pazienti con disfunzioni renali croniche. Un sovraccarico di questa molecole è un problema per le persone con problemi ai reni perché, a differenza dei sani, i loro reni non sono in grado di eliminare l’eccesso di fosfato dall’organismo. Salvi tutti gli altri, quindi? Ad oggi non ci sono sufficienti evidenze scientifiche per dire che gli additivi fosfati possano comportare danni per la salute.
Lo studio pubblicato su Circulation
Tuttavia, il nuovo studio condotto a Dallas e pubblicato sulla rivista Circulation, mette nuovamente in allerta. Secondo i ricercatori, gli alti livelli di fosfato inorganico nella dieta sarebbero il motivo per cui la popolazione americana oggi non è più fisicamente attiva come in passato. Il team ha esaminato l’effetto del fosfato sia sui topi, sia sugli esseri umani.
Dove lo troviamo
Lo studio di Dallas stima che dal 40% al 70% dei prodotti alimentari più venduti, tra cui bevande frizzanti dolci, cibi surgelati preparati, miscele alimentari secche, carne confezionata e prodotti da forno contengano fosfati inorganici. Ciò significa che quasi il 25% degli adulti statunitensi consuma da 2 a 4 volte la dose giornaliera raccomandata di fosfato su base regolare.
L’esperimento sui topi
Per rispecchiare il quadro, i ricercatori hanno preso due gruppi di topi sani: entrambi sono stati nutriti con diete simili, ma uno dei due gruppi ha avuto una “razione” tripla (o più) di fosfato. Dopo 3 mesi, i topi con la dieta a elevato contenuto di fosfati hanno trascorso meno tempo sul tapis roulant e hanno assunto meno ossigeno durante l’esercizio rispetto ai topi del gruppo di controllo. Inoltre, hanno bruciato meno grassi e hanno mostrato cambiamenti in oltre 5.000 geni che il corpo utilizza come fonte di energia.
I dati sugli esseri umani
Nella parte separata dello studio, che ha messo sotto esame 1.603 persone sane, i ricercatori hanno riscontrato dati simili: il campione è stato monitorato per una settimana con un fitness tracker e chi aveva livelli più alti di fosfato nel sangue faceva meno attività fisica ed era più sedentario.
La normativa
Il governo americano, ha spiegato Wanpen Vongpatanasin, autore dello studio e professore di medicina presso l’UT Southwestern Medical Center di Dallasa, «non chiede che i livelli di fosfato siano inseriti nelle etichette nutrizionali degli alimenti e ciò rende difficile per le persone monitorare l’assunzione giornaliera di questa sostanza».
In Italia
Nonostante le evidenze non siano definitive, gli esperti sono concordi nel ricordare che l’assunzione da parte del consumatore e l’utilizzo da parte del produttore di additivi, per quanto possano essere importanti nel garantire la sicurezza alimentare di alcuni prodotti, vadano limitati dove è possibile. Nei prodotti italiani, comunque, non ne viene fatto un utilizzo eccessivo: sono presenti per lo più in formaggi ad alto tasso di trasformazione, in insaccati e salumi.
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