Tutti conoscono l’espressione «andare in brodo di giuggiole», ovvero andare in solluchero, toccare quasi il cielo con un dito. Eppure in pochi, davvero, hanno mai assaggiato i frutti del giuggiolo, piccoli come datteri, alcuni più dolci, altri più aciduli. Questo perché le giuggiole fanno parte di quel bagaglio di varietà ortofrutticole un po’ dimenticate, lasciate da parte a favore di altre più succose e facilmente reperibili. Insieme alla giuggiola ci sono la pompìa, il chinotto, l’azzeruola, la biricoccola. Ma non solo.
In questo articolo
Frutti dimenticati: acquistarli significa garantire la biodiversità
«Si tratta di piante con una piccola distribuzione sul territorio italiano, coltivate e consumate localmente», racconta Marina Carcea, dirigente tecnologo presso il Centro alimenti e nutrizione del Crea – Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria. «Oggi continuare a produrle, e acquistarle, significa garantire la biodiversità, perché sono varietà estremamente differenti da quelle che si trovano al supermercato. Nel loro piccolo, possono anche diventare un’attrattiva del territorio di cui sono un’eccellenza».
Per esempio, la pompìa è tipica di Siniscola, in provincia di Nuoro, uno dei pochi territori in cui l’agrume riesce a crescere. Il corbezzolo è molto diffuso nella macchia marchigiana del monte Conero, a cui il promontorio deve il proprio nome: kòmaros, dal greco, che significa corbezzolo. La giuggiola, invece, è il frutto tradizionale di Arquà Petrarca, in provincia di Padova. Qui si celebra ogni autunno con la festa delle giuggiole, un evento cittadino che quest’anno si tiene dall’1 all’8 ottobre.
«Molte di queste varietà sono state abbandonate perché piccoline, con poca polpa», continua l’esperta, «altre per il loro sapore aspro o acidulo, come l’azzeruola e la biricoccola. E infatti non è un caso che la gran parte di questi frutti dimenticati venga utilizzata per la produzione di confetture, marmellate, gelatine, grappe e liquori, oppure come aromatizzanti».
Anche loro fonte di vitamine ed elementi minerali, possono diventare un’aggiunta preziosa alla dieta tradizionale, arricchendola di colori e sapori originali. Rivalutare i frutti più desueti permette anche di riscoprire una ricca tradizione culinaria che risale a tempi antichi. Ci connette alle radici culturali del nostro Paese e ci rende parte attiva nel supporto alla biodiversità ortofrutticola.
Frutti dimenticati: quali si trovano da giugno a settembre?
Ciliegia bianca
Quasi sparita da orti e frutteti, la ciliegia bianca è conosciuta in Toscana come moscatella e in Umbria come limona. Il suo colore è pregio e difetto, perché se da una parte gli uccelli, volando sulle piante alla ricerca di ciliegie rosse, la risparmiano perché pensano che per il suo giallo sia ancora frutto immaturo, dall’altra, nonostante sia dolce e zuccherina, non è mai stata amata per la commercializzazione perché non stuzzica i sensi come la sorella purpurea. Un tempo, però, lo faceva, e infatti è ben rappresentata nei seicenteschi quadri di natura morta del pittore fiorentino Bartolomeo Bimbi, segnale che era molto apprezzata sulle tavole della corte dei Medici, che la coltivavano nei dintorni di Firenze.
«Anche se dal punto di vista nutrizionale la rossa è probabilmente più ricca di antiossidanti, perché maggiormente pigmentata, la ciliegia bianca essendo ormai desueta è oggi molto più originale e si può prestare a belle composizioni di frutta sulle tavole estive», suggerisce Carcea.
Pera rosa
La pera cocomerina, invece, è coltivata sull’Appenino Cesenate e deve il suo nome alla polpa, che soprattutto vicino ai semi diventa di un rosa brillante. «Dolce e profumata, ha due periodi di raccolta: le prime maturano alla fine di agosto, le tardive si raccolgono alla fine di ottobre», fa sapere Raffaella Ponzio, che coordina il progetto dei presidi italiani di Slow Food e lavora da anni sulla salvaguardia e valorizzazione di varietà tradizionali italiane che rischiano di andare perdute.
«Entrambe vanno consumate subito, al momento della raccolta, quasi prima che cadano, altrimenti si perdono molte delle loro caratteristiche organolettiche. La pera cocomerina si presta molto bene alla trasformazione in marmellate o alla conservazione in sciroppo».
Giuggiola
Se si raccolgono quando ancora non sono mature, le giuggiole hanno un colore verde che ricorda quello delle olive e un sapore che richiama quello delle mele. Quando invece maturano guadagnano una colorazione più scura e il gusto si fa più dolce, simile a quello dei datteri, ai quali assomigliano soprattutto quando si disidratano.
«Le giuggiole fanno parte di quei frutti dimenticati che possono essere riscoperti durante le passeggiate nelle zone tipiche di coltivazione, in particolare quella dei colli Euganei», riprende l’esperta del Crea. Proprio in queste zone è nato il brodo di giuggiole, oggi un liquore, ma un tempo «altro non era che un decotto, perché nell’antichità i frutti del giuggiolo erano utilizzati nella farmacopea tradizionale, nella preparazione di medicinali fitoterapici ed erboristici, in particolare contro la tosse».
Come scrive Morello Pecchioli nel suo libro I frutti dimenticati. Conoscere e cucinare prodotti antichi, insoliti e curiosi (Gribaudo, 2017), la giuggiola «si consuma fresca o essiccata o si trasforma in marmellate, confetture, sciroppi, candita o sotto spirito», ma oggi è «molto gradita anche nelle conserve che la vedono unita ad altri frutti – mele cotogne, uva da pasto, ciliegie, limone in scorze –, è utilizzata per fare dolci ed è apprezzata anche dai grandi cuochi che l’hanno riscoperta e la usano come ingrediente agrodolce nei loro piatti». Con 69 milligrammi di vitamina C per etto (fonte Crea), le giuggiole si posizionano poco sotto l’apporto di acido ascorbico di un kiwi e addirittura al di sopra di molti agrumi, come arance e clementine.
Biricoccola
Dall’unione naturale dell’albicocco e del susino è nata invece la biricoccola. «È un frutto che ha pelle delicatamente vellutata come l’albicocca e la polpa che, come sapore, somiglia a quello della susina: dolce, ma con una vena acidula», racconta ancora Pecchioli nel suo libro. Anche lei utilizzata per realizzare ricche marmellate, confetture, sorbetti e vari tipi di dolci, soprattutto crostate e frittelle ripiene, tipo krapfen, matura tra giugno e luglio e si può trovare nei mercatini o negli agriturismi del centro Italia, nelle aree di Reggio Emilia e di Ravenna, ma oltre alla varietà emiliana ne esiste una anche vesuviana.
Frutti dimenticati: quali si trovano da settembre a dicembre
Azzeruola
Con nomi un po’ arzigogolati, questi frutti condividono un sapore acidulo e la stagionalità autunnale. L’azzeruola matura a fine settembre ed è parte della grande famiglia delle rosacee, di cui fanno parte mela, pera, nespola. In Italia ne conserviamo due varietà, una rossa e una bianca, coltivate soprattutto in Liguria, Piemonte, Emilia-Romagna Lombardia, e Sicilia. C’è anche una terza azzeruola, gialla, ma del Canada.
Tutte e tre si possono comunque trovare in commercio in Italia e nonostante si possano gustare fresche, note per le loro proprietà dissetanti e rinfrescanti, in virtù del sapore un po’ asprigno tradizionalmente si preferiscono in confetture, gelatine o come base per delle grappe.
Corbezzolo
Simile l’impiego del corbezzolo, tipico della macchia mediterranea, del territorio di Ancona e del monte Conero. Gli abitanti della zona lo raccolgono in autunno per trasformarlo in marmellate, aceto aromatico, conserve sotto spirito oppure lo utilizzano come ingrediente per dolci, candito, caramellato, anche immerso nella grappa per aromatizzarla.
Con una corteccia rossastra e frutti dalla polpa gialla, «la pianta di corbezzolo un tempo non mancava mai per i suoi gioiosi colori, per la bontà dei frutti e le proprietà medicamentose, nei giardini all’italiana e nei broli», scrive ancora Pecchioli. «Era talmente bella che divenne un’espressione di meraviglia con tanto di punto esclamativo: “Corbezzoli!”». Molto noto e pregiato, per quanto amaro e di nicchia, anche il miele di corbezzolo, prodotto in poche zona d’Italia e apprezzato da chi non ama il gusto eccessivamente dolce delle altre varietà di miele.
Pompia
L’albero di questo agrume sembra un arancio, ma dai rami molto spinosi. «I frutti sono stranissimi, grandi come e più di un pompelmo, di colore giallo intenso e con la buccia spessa, granulosa, quasi bitorzoluta. Possono pesare anche 700 grammi», riprende Raffaella Ponzio. «La pompìa è una varietà che arriva da lontano, esiste da oltre due secoli, cresce solo in Sardegna, in un’area che gravita intorno al comune di Siniscola e delle sue parti si utilizza solo la scorza per fare liquori oppure l’aranzada». Si tratta di un dolce sardo tradizionale preparato con la buccia della pompìa candita nel miele millefiori, mandorle e piccoli confetti colorati.
Del frutto è impensabile il consumo fresco perché la sua polpa, così come il succo, sono troppo acidi, anche più di un limone. «I dolci di pompìa hanno tempi di lavorazione molto lunghi. Almeno sei ore, da quando si gratta via la scorza e lo si libera dalla polpa amara. Al termine non rimane che una sorta di palloncino vuoto che viene prima lessato, poi immerso nel miele e posto in una teglia a sobbollire per circa tre ore». A Siniscola la pompìa si utilizza per produrre tantissime altre preparazioni alimentari, tra cui la panna cotta, granite, gelati e ovviamente la marmellata. Il periodo di maturazione va da novembre fino a gennaio.
Chinotto è tra i frutti dimenticati
Il chinotto è un agrume originario della Cina che dal 1500 circa si è ben acclimatato nella regione ligure, dove trovò un ambiente ideale dopo essere stato trapiantato da un navigatore savonese. «Da allora si coltiva solo nel territorio rivierasco da Varazze a Pietra Ligure e un tempo, in molti caffè italiani e francesi, sul banco di vendita, si poteva trovare un vaso dotato di un cucchiaino di maiolica pieno di piccoli agrumi verdi immersi nel maraschino: erano chinotti di Savona, famosi per qualità, aroma e ottimi come digestivi», racconta Ponzio.
I frutti del chinotto non sono più grandi di un mandarino, dal colore verde brillante che poi vira all’arancio, maturi da settembre a novembre. Freschi non si mangiano, perché troppo amaragnoli, quindi si consumano soprattutto canditi e sciroppati. Si immergono in salamoia (un tempo si utilizzava l’acqua di mare), bolliti in sciroppi dolci e infine posti in liquore oppure canditi con lo zucchero.