Convivere con una patologia non riconosciuta (e quindi non diagnosticata) con dolori indecifrabili che impattano pesantemente sulla qualità della vita. È questa la condizione comune a moltissime persone con spondiloartriti assiali, malattie infiammatorie croniche che colpiscono la colonna vertebrale e le articolazioni sacro-iliache. In questo gruppo confluiscono la spondiloartrite assiale non‑radiografica (nr‑axSpA), più frequente nel sesso femminile, e la spondilite anchilosante (SA o axSpA radiografica), che colpisce maggiormente gli uomini. In occasione della Giornata Mondiale delle malattie reumatiche, che si celebra il 12 ottobre, cerchiamo di capire meglio come si manifestano e in che modo si possono trattare le spondiloartriti assiali.
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Come si manifestano le spondiloartriti assiali?
Queste patologie interessano in Italia circa 200.000 individui e, contrariamente a quanto si possa pensare, un quarto di questi sono giovani adulti, che si trovano a dover fare i conti con disturbi considerati tendenzialmente senili. Entrambe le forme, infatti, si manifestano con mal di schiena infiammatorio, rigidità articolare, scarsa mobilità e flessibilità della colonna. Di fronte a questa sintomatologia, però, il rischio è quello di banalizzare la condizione e di confonderla con una “semplice” lombalgia. In realtà il mal di schiena delle spondiloartriti è molto diverso: è un dolore infiammatorio, sordo e continuo, che si manifesta prima dei 40 anni e interessa soprattutto la parte bassa della colonna. Questi disturbi non cessano mai veramente e possono durare anche oltre i tre mesi, migliorano con l’esercizio fisico e peggiorano con il riposo.
I dolori che caratterizzano le spondiloartriti, sia l’assiale non-radiografica sia la spondilite anchilosante, non si concentrano esclusivamente sulla colonna vertebrale ma possono colpire anche fianchi, spalle, ginocchia, glutei e collo. Inoltre, chi sviluppa una grave forma di SA può andare incontro, nell’arco di 10-15 anni, anche alla fusione vertebrale, cioè l’unione delle ossa, che riduce significativamente la mobilità.
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In cosa si differenziano le due forme di spondiloartriti assiali?
Ma se i sintomi sono pressoché gli stessi, in cosa si differenziano la spondiloartrite assiale non‑radiografica e la spondilite anchilosante? Le differenze riguardano i riscontri ottenibili con una radiologia convenzionale e il grado di avanzamento della patologia. Se infatti per la spondiloartrite assiale non radiografica non si rilevano modifiche strutturali nel corso di una radiologia convenzionale, per la spondiloartrite assiale radiografica, a causa del suo grado di avanzamento, le modifiche strutturali della colonna vertebrale sono visibili con la radiografia.
Quali sono le cause?
I motivi per i quali si sviluppano e manifestano le spondiloartriti assiali non sono ancora del tutto chiari. Tuttavia, la comunità scientifica concorda sul ruolo giocato dalla genetica. Sembra, infatti, che il gene HLAB27 sia associato a un aumento del rischio e la sua presenza in ambito familiare aumenta la probabilità di insorgenza di queste patologie. Oltre alla suscettibilità genetica, però, intervengono altri fattori, come quelli ambientali, molto spesso associati a episodi infettivi. L’interleuchina-17A (IL-17A) è una delle numerose proteine dell’organismo, dette citochine, che lo aiutano a proteggersi nella risposta immunitaria e segnalano alle cellule che combattono le infezioni la necessità di attivare questo tipo di risposta quando rilevano la presenza di agenti estranei, come ad esempio batteri o altri germi che causano malattie. Poiché l’IL-17A svolge un ruolo importante nello sviluppo delle malattie infiammatorie, se ne riscontrano maggiori concentrazioni nel liquido e nel rivestimento delle articolazioni di persone con spondilite anchilosante.
Come si fa la diagnosi?
Come dicevamo poco fa, la sintomatologia delle spondiloartriti assiali può essere ricondotta a disturbi più comuni, come ad esempio una lombalgia, e trarre quindi in inganno prima il paziente e poi il medico di famiglia, che è il primo interlocutore a cui ci si rivolge. In questa prima fase si perde già molto tempo prezioso per la formulazione di una diagnosi e per l’accesso ai trattamenti. A confermarlo è Giorgio Circosta, un giovane adulto che da 15 anni soffre di spondilite anchilosante e che, lo scorso giugno, ha aderito all’iniziativa di Novartis “Passi di SAlute”, percorrendo – fisicamente e metaforicamente – più di 120 chilometri lungo la Via degli Dei. «All’inizio riuscivo a gestire il mal di schiena con i classici antinfiammatori e forse è stato anche questo che ha confuso me e i medici ai quali, negli anni, mi sono rivolto», dice. «Poi, quando il dolore è diventato davvero insopportabile e invalidante ho iniziato a consultare ogni specialista possibile, dall’ortopedico al neurologo, fino ad arrivare finalmente al reumatologo, che ha immediatamente dato un nome alla mia patologia», racconta il ragazzo.
Quando, infatti, si arriva dal reumatologo, quest’ultimo deve verificare, tramite esami fisici, la presenza di segni di infiammazione e dolore, testando la mobilità del paziente in seguito all’esecuzione di determinati movimenti. In seguito, servendosi della diagnostica per immagini, può confermare o meno eventuali danni articolari e/o stati infiammatori riconducibili alle spondiloartriti. Infine, lo specialista richiede esami di laboratorio per individuare la positività alla proteina HLA-B27 e i livelli della proteina C-reattiva: se elevati possono rappresentare un indicatore di infiammazione.
Come si trattano le spondiloartriti assiali?
L’attività fisica rappresenta una componente fondamentale del percorso terapeutico. Se viene portata avanti con costanza, infatti, può supportare la terapia farmacologica con successo, migliorando la gestione stessa della patologia, l’elasticità della colonna vertebrale e, più in generale, la qualità della vita del paziente. Oltre al movimento, caldamente suggerito, per ridurre l’infiammazione e alleviare i sintomi della malattia si possono assumere farmaci antinfiammatori non steroidei, che svolgono un’azione antinfiammatoria, fornendo un sollievo temporaneo.
«Quando tutto questo non è sufficiente per far star bene il paziente, allora si può intraprendere un trattamento con farmaci biologici, che sono in grado di neutralizzare le citochine, molecole prodotte da cellule immunocompetenti, responsabili dell’infiammazione. Questi farmaci vengono somministrati sempre meno per via endovenosa e sempre di più per via sottocutanea – di solito nella pancia o nella coscia – con intervalli di tempo variabili a seconda della molecola impiegata. Per ciascun farmaco, conservato in frigorifero, è prevista una cadenza di somministrazione che deve essere assolutamente rispettata», dice Carlo Selmi, Responsabile dell’Unità Operativa Reumatologia e Immunologia clinica in Humanitas e professore ordinario di Medicina interna all’Humanitas University di Milano.
Consigli utili per stare meglio
Oltre all’attività fisica, è fondamentale mantenere una postura corretta ed evitare la flessione della colonna. Anche la qualità del sonno è importante e per garantirsi un buon riposo bisognerebbe evitare di bere caffè e alcolici prima di coricarsi, utilizzare materassi comodi, areare la stanza nella quale si dorme, andare a letto sempre alla stessa ora. Dal punto di vista dietetico, andrebbe sospesa l’assunzione di cibi che causano l’infiammazione, come insaccati, formaggi, bevande alcoliche, alimenti ricchi di fruttosio, e privilegiare il consumo di verdure e prodotti non raffinati. Un’alimentazione corretta influisce positivamente anche sul peso corporeo: per non appesantire la colonna vertebrale i chili di troppo vanno eliminati.