È un nome lungo e difficile da pronunciare quello delle spondiloartriti, malattie infiammatorie croniche che colpiscono la colonna vertebrale, ma talvolta anche le articolazioni periferiche degli arti superiori e inferiori, ed esordiscono tipicamente con un dolore alla schiena. Proprio così: questo gruppo di patologie, entro il quale troviamo la spondilite anchilosante, l’artrite psoriasica e l’artrite reattiva, si manifesta con un sintomo tanto comune da non essere quasi mai associato tempestivamente alla patologia che in realtà lo scatena.
Il dolore avvertito soprattutto nella fascia lombare, infatti, può trarre in inganno sia il paziente, che il più delle volte è convinto di avere una semplice lombalgia e nemmeno chiede un consulto clinico, sia il medico di famiglia, il primo interlocutore cui tendenzialmente ci si rivolge e cui spetta porre un sospetto diagnostico. L’incomprensione della vera natura del disturbo fa sì che si perda tempo prezioso per la formulazione di una diagnosi e per l’accesso ai trattamenti, che oltre a ridurre le sensazioni dolorose migliorano notevolmente la qualità della vita dei pazienti.
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Passi di SAlute: una camminata con (e contro) le spondiloartriti
Per accendere i riflettori su queste patologie, in modo da accorciare le tempistiche del percorso diagnostico e limitare quanto più possibile i danni che mesi – o nella peggiore delle ipotesi, anni – di ritardi possono provocare a livello articolare e sistemico, Novartis lancia il progetto “Passi di SAlute”, patrocinato dalle principali associazioni di pazienti con malattie reumatologiche. Il protagonista di questa iniziativa è Giorgio (seguilo sui canali @saichelasa Facebook e Instagram), un ragazzo con spondilite anchilosante che, il prossimo giugno, percorrerà poco più di 120 chilometri lungo la Via degli Dei, un’antica strada militare che collega Bologna a Firenze. Questo sarà un cammino che verrà intrapreso fisicamente, certo, ma soprattutto metaforicamente, per ripercorrere le difficoltà che le persone con una patologia reumatica subiscono prima di arrivare a dare un nome alla propria malattia e avere la cura giusta.
Spondiloartriti: come riconoscere il tipico mal di schiena infiammatorio?
Solo facendo informazione e sciogliendo i dubbi su questo gruppo di patologie si può sviluppare una maggiore sensibilità nei confronti della sintomatologia caratteristica. «L’Organizzazione Mondiale della Sanità conferma che circa il 90% della popolazione generale va, almeno una volta nella vita, dal medico per il mal di schiena. Quindi di fronte a un disturbo tanto frequente, il rischio è quello di banalizzarlo, attribuendo quel dolore alle cause più disparate, dai lavori di giardinaggio a un’attività fisica troppo intensa», interviene Roberto Caporali, Direttore del Dipartimento di Reumatologia e Scienze Mediche dell’ASST Gaetano Pini – CTO di Milano.
«In realtà il mal di schiena della spondiloartrite è totalmente diverso: è un dolore infiammatorio, sordo e continuo, che si manifesta prima dei 40 anni e interessa soprattutto la parte bassa della colonna. Chi soffre di mal di schiena sa che dopo qualche giorno di sofferenza il disturbo scema fino all’episodio successivo, invece quello caratteristico di queste malattie, come la spondilite anchilosante, non cessa mai veramente e può durare anche oltre i tre mesi, migliora con l’esercizio fisico e peggiora con il riposo ed è accompagnato da rigidità mattutina tanto che il paziente fa addirittura fatica a infilarsi le calze o ad allacciarsi le scarpe».
È fondamentale sensibilizzare i medici di famiglia e gli altri specialisti
Tuttavia, prima di arrivare al reumatologo, che è la figura di riferimento per queste patologie, il paziente rallenta il suo percorso alla diagnosi cercando soluzioni alternative alla gestione del sintomo. «L’altra cosa che rende ulteriormente difficile la diagnosi è che questo mal di schiena infiammatorio risponde molto bene ai farmaci antinfiammatori, acquistabili in farmacia senza la prescrizione medica. In questo modo i pazienti possono controllare i sintomi, almeno nelle prime fasi della malattia, e ciò li porta a non rivolgersi o a farlo tardi al proprio medico di famiglia. La risposta del dolore a questa tipologia di medicinali, inoltre, può fuorviare anche i medici di medicina generale, qualora ci si recasse da loro per una valutazione clinica. Ecco perché è importante sensibilizzare queste figure, ricordando loro che esiste questo tipo di problematica all’interno dei numerosi mal di schiena esperiti dai loro tanti pazienti», commenta Carlo Selmi, Responsabile dell’Unità Operativa Reumatologia e Immunologia clinica in Humanitas e professore ordinario di Medicina interna all’Humanitas University di Milano.
«Fare cultura sulla corretta interpretazione dei sintomi e sul valore del reumatologo ma anche aumentare la consapevolezza di altri specialisti, come fisioterapisti, ortopedici, neurologi o altre persone alle quali chi ha mal di schiena può rivolgersi rappresentano gli elementi chiave nel raggiungimento di una diagnosi precoce, cui si arriva attraverso una risonanza magnetica dell’area colpita, una radiografia nei casi di più lunga data e, infine, test genetici», va avanti Selmi.
Contro le spondiloartriti: sport e terapia farmacologica
Come dimostra Giorgio che, zaino in spalla e scarponcini ai piedi, si prepara a macinare chilometri lungo parte dello stivale, spondiloartrite e sport è un binomio non solo possibile ma anche raccomandato. «L’attività fisica rappresenta una componente fondamentale del percorso terapeutico. Se viene portata avanti con costanza, infatti, può supportare la terapia farmacologica con successo, migliorando la gestione stessa della patologia, l’elasticità della colonna vertebrale e, più in generale, la qualità della vita del paziente», prosegue il professor Caporali.
Oltre al movimento, caldamente suggerito dal reumatologo, per lenire i sintomi e spegnere l’infiammazione si possono assumere gli antinfiammatori non steroidei. «Quando tutto questo non è sufficiente per far star bene il paziente, allora si può intraprendere un trattamento con farmaci biologici, che sono in grado di neutralizzare le citochine, molecole prodotte da cellule immunocompetenti, responsabili dell’infiammazione. Questi farmaci vengono somministrati sempre meno per via endovenosa e sempre di più per via sottocutanea – di solito nella pancia o nella coscia – con intervalli di tempo variabili a seconda della molecola impiegata. Per ciascun farmaco, conservato in frigorifero, è prevista una cadenza di somministrazione che deve essere assolutamente rispettata», conclude il professor Selmi.