Essere portatori di una mutazione genetica, non significa essere malati, ma essere più a rischio di sviluppare una malattia. È come quando si va veloce in macchina: l’incidente non è sicuro, ma ci si espone maggiormente all’eventualità. Questo è un concetto importante su cui sensibilizzare la popolazione, specialmente quella maschile, meno consapevole, rispetto al genere femminile, che l’essere portatori di geni mutati aumenta le probabilità di una neoplasia. Uno studio appena avviato nell’ambito del Progetto Blu One, di Fondazione Humanitas per la Ricerca, dedicato alla salute al maschile e portato avanti dall’Unità Operativa dell’Urologia di IRCCS Istituto Clinico Humanitas, si occupa proprio di questo: identificare uomini in buona salute, con familiarità o portatori di una mutazione genetica che predispone all’insorgenza di tumore prostatico, fare sensibilizzazione e offrire loro uno screening specifico per la diagnosi precoce.
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Geni e familiarità
La mutazione genetica che aumenta il rischio di cancro alla prostata nell’uomo è quella dei geni BRCA2 e BRCA1, la stessa che nelle donne espone alla possibilità di avere un tumore al seno o alle ovaie. Per questo, gli individui a rischio sono quelli che hanno una parente di primo grado, mamma o sorella, risultata positiva a questa mutazione. «Siamo partiti da più di 1.000 famiglie in cui c’erano donne con tumore mammario oppure ovarico» spiega Massimo Lazzeri, urologo dell’Istituto Clinico Humanitas IRCCS di Rozzano, principal investigator dello studio finanziato da Fondazione Airc per la Ricerca sul Cancro e dal bando “Roche per la ricerca clinica – A supporto delle figure di data manager e infermieri di ricerca”. «Di queste, ne sono state identificate 130 in cui erano i tumori erano dovuti all’espressione della mutazione genetica, corrispondenti a circa 344 potenziali portatori maschi. La prima evidenza, molto pratica, è che il desiderio degli uomini di sottoporsi a esami di screening è molto basso. Infatti, di questi potenziali portatori, per ora siamo riusciti a coinvolgerne 80». Lo studio durerà cinque anni, ma già tra tre inizieranno ad essere disponibili i primi risultati.
L’importanza dagli esami di prevenzione
La scarsa volontà, e consapevolezza, a fare prevenzione, non è un dato positivo. Perché individuare la mutazione permette una presa in carico dei pazienti e un’eventuale diagnosi preventiva della malattia, con maggiori possibilità di successo nella cura. Nel 2020, oltre 36 mila italiani hanno ricevuto una diagnosi di tumore alla prostata. E secondo le stime 2021 dell’Associazione Italiana Oncologia Medica, nell’anno appena trascorso 7.200 uomini hanno perso la vita a causa di questa neoplasia.
«Al maschio sano mutato, nel nostro studio, viene offerto un controllo annuale, che permette di intercettare precocemente l’eventuale malattia. Se poi il paziente si ammala, grazie allo screening, siamo in grado di saperlo a uno stadio di sviluppo della patologia che ci consente di curarla prima e meglio. Trasformando una malattia, nella cultura popolare incurabile, in una curabile» precisa Lazzeri.
Lo screening
In cosa consiste lo screening? «In una visita urologica e un prelievo di sangue che oltre al PSA valuta anche un altro biomarcatore, il PHI. Di norma i pazienti eseguono il PSA e, se questo era sopra un certo valore (4 ng/ml), vengono invitati a eseguire una biopsia prostatica per la diagnosi precoce del tumore. Ma avere un PSA alto non significa essere malati di tumore. E, analogamente, avere un PSA basso non garantisce di non esserlo. L’utilizzo di un nuovo biomarcatore ha lo scopo di migliorare l’accuratezza del solo PSA. E poi abbiamo integrato questo esame con la risonanza nucleare magnetica multiparametrica. In questo modo, evitiamo di eseguire biopsie inutili» spiega l’urologo.
Pre-venire è la medicina del futuro
«Non ci stiamo occupando della malattia di questi uomini, ma della loro possibile malattia, l’alterazione del DNA» conclude l’esperto. «I pazienti lo apprezzano, capiscono che stiamo prendendoci carico del loro benessere presente e futuro. In più, conoscendo la genetica della malattia possiamo intervenire con farmaci mirati a colpire i difetti generati dai geni difettosi. Un passo reale non solo nella presa in carico, ma anche nella cura. Che riduce i rischi di vita e ne migliora la qualità».