Da tempo psichiatri e psicologi lanciano l’allarme di una pandemia di problemi mentali, insieme a quella correlata alla diffusione di Covid. A ormai più di due anni dall’inizio della pandemia, la situazione psicologica ed emotiva degli italiani è critica. A conferma arrivano i dati dell’organizzazione di volontariato Telefono Amico Italia. Nel 2021 più di 100.000 persone hanno chiesto aiuto. Si tratta di un +85% rispetto al periodo pre pandemico e la situazione è in progressivo peggioramento.
Gli psichiatri americani parlano apertamente di mental illness pandemic per sostenere che oltre alla pandemia da Covid, ce ne sia un’altra in corso che colpisce e colpirà la salute mentale. «Fin dall’inizio della pandemia si disse che per la psichiatria e per la salute mentale non sarebbe stato uno sprint, ma una maratona. Ossia non sarebbe diventata una problematica a breve termine, ma a lungo termine. In poche parole gli effetti si sarebbero visti soprattutto a posteriori, quando auspicabilmente, si potrà concludere questa parentesi della pandemia, cioè nel prossimo futuro», interviene Maurizio Pompili, professore ordinario di Psichiatria all’Università Sapienza di Roma e Direttore della UOC di Psichiatria dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Andrea di Roma.
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Pandemia di problemi mentali: quali sono le cause?
«La precarietà che si è creata a causa di questo effetto pandemico è la dissipazione delle relazioni umane e dei contatti, della crescita soprattutto tra i giovani e della regolazione affettiva che normalmente si ha con il contatto con un proprio pari. Potrà dare ripercussioni e sta dando purtroppo ripercussioni sulla salute mentale dell’intera popolazione, ma in particolar modo dei giovani. Oltre a questo ci sono la precarietà economica e l’incertezza del futuro. Abbiamo visto attività commerciali andate completamente in fumo. Tutto questo sicuramente crea una vulnerabilità in quegli individui che già avevano delle difficoltà in precedenza», continua il professore.
Perché è sempre così difficile, anche a livello istituzionale, occuparsi di malattia mentale?
«Nel complesso i servizi psichiatrici sono propositivi, sono presenti, sono rappresentati. Il problema della malattia mentale è lo stigma, ossia il marchio indelebile che si porta dietro. Accade perché evoca una diversità, evoca secoli passati di grande emarginazione. Quindi si preferisce non parlarne e nemmeno recarsi dallo psichiatra per non essere additati. Quello che emerge è che sicuramente i servizi fondamentali per la salute mentale necessitano di una grande attenzione. Le persone però possono non recarsi in tali luoghi per paura di essere riconosciuti come affetti da una follia, da un disturbo grave», dice Pompili.
Il Servizio Sanitario è pronto ad affrontare questa pandemia di problemi mentali?
«C’è una diversificazione da fare. Ci sono delle condizioni più o meno gravi a seconda delle circostanze. Ci sono i servizi ambulatoriali. A volte c’è bisogno del ricovero, altre è sufficiente un day hospital. Il ruolo del medico di base è fondamentale, perché può valutare che tipo di gravità esista e indirizzare allo specialista più appropriato. Se si fa una diversificazione si riesce a gestire anche meglio l’utenza».
Pandemia di problemi mentali: quali sono i sintomi che devono metterci in allarme?
«I sintomi possono essere diversi. Bisogna stare attenti a tutto ciò che interferisce con le attività quotidiane e di relazione in maniera importante. Quando queste interferenze impediscono di svolgere il proprio lavoro, di essere una persona presente nella vita di relazione e in quella familiare. Quando una persona passa la maggior parte del suo tempo con preoccupazioni o con umore depresso. Non deve essere qualcosa di marginale, ma qualcosa di preponderante nello svolgimento della vita quotidiana. Poi l’insonnia che si protrae nel tempo, pensieri anche di disperazione, di non avere aspettative future. Ecco, in tutti questi casi si parla di un’angoscia, di un sentimento di disperazione, di sfiducia verso il futuro importante. Quindi è importante rivolgersi a uno specialista», spiega il professore Pompili.
Pandemia di problemi mentali: lo stile di vita può aiutare?
«Senza dubbio potersi ritagliare degli spazi per sé stessi o fare attività che interrompano la routine. Ricreare delle attività che facciano pensare a noi stessi. Sono attività ricreative, come ammirare la natura, ascoltare musica. Avere degli orari specifici per mangiare o dormire è cruciale. Anche moderare l’uso dell’alcool. Tutto questo può in qualche modo favorire nettamente il decorso e la risoluzione di questi sintomi».
Gli psichiatri americani hanno inserito lo sport nelle terapie contro ansia e depressione
«Sono particolarmente favorevole a questa linea suggerita dai colleghi statunitensi. Anche noi studiamo questo tipo di applicazione e siamo particolarmente convinti che l’attività fisica possa svolgere un ruolo importantissimo. È una chiave di lettura fondamentale, quindi ben vengano questi tipi di suggerimenti e che vengano integrati nelle linee terapeutiche. Se manca la motivazione può intervenire il medico, istruendo il paziente a dedicarsi a delle attività, che diventano parte integrante della terapia. Piuttosto che assumere farmaci, fare una camminata di 40 minuti e fare ginnastica all’aria aperta, correre in maniera molto moderata, secondo i propri ritmi e fare altre attività. Magari sotto la spinta del medico, il paziente può scoprire la dimensione del benessere psicofisico derivante dall’esercizio fisico che prima non conosceva e vedere anche attenuati i sintomi psichici».
Ci sono ancora molte resistenze verso gli psicofarmaci
«I farmaci sono indispensabili per ridare benessere alla persona e attenuare i sintomi e trattare i disturbi psichiatrici. Quindi, se usati in maniera sapiente, in maniera appropriata, i farmaci sono a vantaggio e alleati dei pazienti. Quindi deve essere sfatato il mito che vi siano effetti collaterali esagerati. Ovviamente vanno gestiti in maniera molto precisa dallo specialista e in alleanza con il paziente», continua lo specialista.
I dati del Telefono Azzurro sono molto preoccupanti. Cosa possono fare i genitori?
«I genitori devono essere particolarmente attenti a tutte le modificazioni dei comportamenti dei propri figli. Se ci sono cambiamenti delle abitudini del sonno, dell’appetito e dell’igiene personale, delle applicazioni alle attività sportive o scolastiche, devono farsi sorgere il dubbio che può esserci un problema».
L’aumento dei tentativi di suicidio tra i giovani
«Quello che si riscontra in questo periodo è anche la rischiosità suicidaria. Da un lato il numero dei suicidi non è aumentato durante la pandemia. C’è però un maggior numero di tentativi di suicidio e di autolesionismo tra i giovani. Una statistica statunitense ha riportato che nelle ragazze dai 12 ai 17 anni c’è stato un aumento del 51% dei tentativi di suicidio rispetto al 2019. Questo deve essere particolarmente valutato come un segnale di grande disagio giovanile. I genitori devono essere attenti anche ad affermazioni come “non ce la faccio più”, “a che serve vivere”, “mollo tutto”. Bisogna allarmarsi anche se il figlio dà via cose care, o se ci sono sintomi fisici che non trovano una spiegazione», conferma Pompili.
Pandemia di problemi mentali: quale può essere il ruolo della scuola?
«La scuola, parimenti, ha un ruolo molto strategico perché si trova ad osservare tanti giovani contemporaneamente. Quindi dovrebbe poter filtrare, fare una sorta di screening su quelle situazioni a più alto rischio e indirizzarle a un approfondimento. Inoltre bisognerebbe poter contare sull’aiuto dei pari. Se i compagni possono essi stessi riconoscere una difficoltà nel proprio compagno di classe, dovrebbero poter suggerire a questa persona di recarsi dal medico scolastico, da uno specialista o a parlarne con i genitori. Per far questo ci vogliono dei programmi di informazione e formazione. Occorre rendere consapevoli i giovani di questi segnali d’allarme».
La recente Conferenza sull’Alcol ha messo in luce il problema dell’abuso di alcolici nei minorenni. Cosa possono fare le famiglie?
«I programmi di informazione e formazione valgono anche in questo contesto. Se i ragazzi vengono in qualche modo sensibilizzati su quelli che sono i danni creati dall’abuso di alcol, si possono ottenere dei risultati importanti. Ovviamente non deve essere un messaggio calato dall’alto con il monito “l’alcol fa male, smetti”. Bisogna entrare in relazione con i giovani, far capire loro che non c’è un atteggiamento impositivo, ma un atteggiamento collaborativo che vuole far conoscere loro quelli che sono gli effetti deleteri di certi comportamenti. Se si entra in contatto con loro, c’è anche la possibilità di aspettarsi dei cambiamenti. Quindi genitori e scuola possono creare le giuste condizioni per entrare in relazione con i giovani».