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Silvia Salis: «Ho vinto sportivamente in un mondo di uomini»

La vicepresidente vicario del Coni racconta di come si stia battendo per la parità di genere nello sport

Dai campi di atletica, sui quali ha costruito 15 anni di carriera, collezionato dieci titoli nazionali, preso parte a tre Mondiali e due Olimpiadi, alla stanza dei bottoni del Coni, dove oggi ricopre il ruolo di vicepresidente vicario, confermandosi la prima donna in Italia a ottenere questo incarico. Silvia Salis non pratica semplicemente sport, lei è lo sport. Tutto della sua storia parla di sacrifici, sudore, scarpe da ginnastica consumate ma anche di conquiste e progetti maturati come dirigente sportivo.

A soli 13 anni se ne infischia del giudizio degli altri e sceglie di assecondare il suo amore per il lancio del martello, facendosi largo in un ambiente popolato da soli uomini; anni più tardi, dopo aver appeso la pettorina al chiodo, difenderà la sua scelta e quella di tante altre atlete, battendosi per la parità di genere nello sport e affinché le donne si sentano finalmente forti anche in questo ambito. «Bisogna emanciparsi dallo stereotipo delle cose “da maschi” e delle cose “da femmine”, nella vita come nello sport», racconta. «Lo sa bene Stella, la protagonista del mio libro La bambina più forte del mondo, che sogna di praticare il lancio del martello, disciplina sportiva “non per femminucce”, come le dice qualcuno. Ma Stella non si dà per vinta, si allena con un martello che si costruisce da sola e con caparbietà realizza il suo desiderio più grande».

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In questo racconto e in questo personaggio quanto c’è della sua storia personale?

«Proprio come Stella anche io mi sono trasferita, all’età di tre anni, a Villa Gentile, un campo di atletica di Genova, di cui mio padre era il custode. La nostra casa era proprio all’interno della struttura, quindi sono cresciuta tra gradinate, materassoni, prato e sabbia, in uno spazio immenso dove correre, nascondermi, saltare. È qui che ho iniziato a respirare lo sport e ad accarezzare l’idea di diventare una lanciatrice di martello, proprio come la bambina del racconto. Fortunatamente i miei genitori mi hanno sempre lasciata libera di esprimermi e di seguire la mia strada, anche se quest’ultima poteva sembrare bizzarra agli occhi di molti, ma so che non per tutti è stato ed è così. Stella rappresenta tutti quei bambini che cercano di dare seguito ai loro sogni, in un mondo in cui il loro percorso è praticamente già tracciato da qualcun altro».

L’ambiente in cui cresce un bambino può condizionarne le aspirazioni?

«Sì, spesso le bambini e i bambini subiscono inconsapevolmente l’influenza delle famiglie, che in alcuni casi tendono a imporre la loro visione della vita senza dare ascolto alle inclinazioni dei figli. Quella che ho scritto è una favola per tutte le età: per i più piccoli, per far capire loro che devono trovare la forza di perseguire le proprie aspirazioni, anche se sono diverse da quelle che gli altri si aspettano; e per i più grandi, che talvolta devono imparare a non essere ostili davanti alle vere ambizioni dei figli. Ci sono tanti genitori apparentemente emancipati che, però, di fronte a una bambina che vuole praticare judo o pugilato anziché indossare il tutù, storcono il naso e oppongono resistenza. Mi piacerebbe, invece, che anche le bambine inizino a sentirsi forti e parte attiva del cambiamento».

A livello culturale è evidente che ci sia, ancora oggi, disparità di genere. Questo nello sport come si manifesta?

«Come dicevo, alcuni sport vengono ancora spesso concepiti come attività esclusivamente maschili poiché richiedono virtù attribuite erroneamente solo all’uomo, come forza, agonismo, sforzo fisico. A ciò si aggiungono la disparità di trattamento economico, perché a parità di livello le donne vengono pagate meno e traggono profitti inferiori dagli sponsor, e la copertura mediatica, che rimane fortemente sbilanciata a favore degli sport praticati da uomini. È stato fatto tantissimo nel calcio femminile, ma il divario c’è ancora ed è molto grande. C’è da dire poi che anche i fruitori dello sport, cioè quelli che guardano partite e gare dal divano di casa loro, sono perlopiù uomini e questi preferiscono di gran lunga seguire le competizioni maschili. È un cane che si morde la coda, insomma. Inoltre, le donne che hanno ottenuto incarichi dirigenziali o le commentatrici sportive sono sempre ex atlete: la stessa cosa non vale per gli uomini».

Che cosa è stato fatto e che cosa c’è ancora da fare per cambiare il sistema?

«Alcuni anni fa con la commissione atleti del Coni abbiamo istituito il primo fondo maternità, che consente alle atlete di essere tutelate economicamente in quel meraviglioso percorso di vita che è la gravidanza. Si tratta di un traguardo importante che per la prima volta pone l’accento sullo sport come lavoro a tutti gli effetti, anche in assenza di professionismo. E proprio per il riconoscimento del professionismo sportivo, questione trasversale che interessa entrambi i generi, ci batteremo nei prossimi anni di mandato. Sempre facendo squadra perché solo con l’aiuto di tutti, donne e uomini, potremo smuovere le acque stantie».

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Chiara Caretoni

Giornalista pubblicista, lavora come redattrice per OK Salute e Benessere dal 2015 e dal 2021 è coordinatrice editoriale della redazione digital. È laureata in Lettere Moderne e in Filologia Moderna all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha accumulato diverse esperienze lavorative tra carta stampata, web e tv, e attualmente conduce anche una rubrica quotidiana di salute su Radio LatteMiele e sul Circuito Nazionale Radiofonico (CNR). Nel 2018 vince il XIV Premio Giornalistico SOI – Società Oftalmologica Italiana, nel 2021 porta a casa la seconda edizione del Premio Giornalistico Umberto Rosa, istituito da Confindustria Dispositivi Medici e, infine, nel 2022 vince il Premio "Tabacco e Salute", istituito da SITAB e Fondazione Umberto Veronesi.
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