Francesca Cavallin, attrice ed ex modella, quest’anno si vedrà in tv nella fiction Rai Vostro Onore, accanto a Stefano Accorsi, e al cinema con il film Era ora, diretto da Alessandro Aronadio. È nota anche per i suoi ruoli nella soap opera Vivere, su Canale 5, e i fiction di successo come Un medico in famiglia e Un professore, quest’ultima andata in onda su Rai1 lo scorso autunno. L’attrice ha due figli, Leonardo e Jacopo, avuti dal regista Stefano Remigi. A OK Salute racconta la sua difficile battaglia contro i disturbi alimentari.
In questo articolo
Il mio approccio nei confronti del cibo non è sempre stato idilliaco
Dopo tanti anni trascorsi a sfidare quello che, nella mia testa, si prefigurava come uno dei miei più grandi avversari, il cibo, oggi finalmente non solo sono riuscita a seppellire definitivamente l’ascia di guerra, ma ho anche compreso appieno il valore di questa «linfa vitale», che ogni giorno nutre armoniosamente il mio corpo e la mia mente. Mi piace parlare proprio di nutrimento perché col tempo ho capito che un’alimentazione sana ed equilibrata è sì il sostentamento indispensabile allo sviluppo e al mantenimento delle proprie funzioni vitali, ma è anche un profondo atto d’amore verso se stessi.
Prestare la giusta attenzione a ciò che si porta in tavola, cercando di comprendere le esigenze dell’organismo e assecondando i ritmi della stagionalità, è un dono prezioso che possiamo fare alla nostra persona e alla nostra salute. Oggi il mio sguardo è filtrato dall’età e dall’esperienza, che mi hanno aiutata ad acquisire una solida consapevolezza alimentare, ma il mio approccio nei confronti del cibo non è sempre stato così idilliaco.
Avrei voluto essere come le top model degli anni Novanta
Durante l’adolescenza, infatti, ho sofferto di disturbi alimentari. Quando si è molto giovani non si ha la capacità critica per comprendere cosa ti spinga a rifiutare o, al contrario, ingurgitare senza freno il cibo: tutto ciò lo si capisce più tardi, quando si raggiunge una maturità tale per cui, ripercorrendo a ritroso la propria vita, si decifra la matrice psicologica all’origine del problema. A 17-18 anni ci si fa abbattere in pieno dallo tsunami, senza porsi domande esistenziali di alcun tipo e senza comprendere davvero il disagio che si nasconde dietro. Gli anni dell’adolescenza, per antonomasia i più delicati e critici, mi hanno destabilizzata e resa più suscettibile ai condizionamenti esterni. Quello dei primi anni 90, infatti, era il periodo delle top model, ragazze all’apparenza perfette che stavano diventando icone a tal punto da farmi credere che avrei davvero voluto essere come loro.
Ho iniziato a impormi delle restrizioni alimentari pesanti
Per avvicinarmi a quell’idea di perfezione tanto agognata la prima «strategia» è stata quella di non mangiare. All’epoca mia nonna seguiva una dieta, la Weight Watchers, che le era stata prescritta dal suo nutrizionista per un lieve sovrappeso. Rubando qualche indicazione qua e là e senza consultare alcuno specialista, ho iniziato a impormi delle restrizioni alimentari che oggi definirei totalmente illogiche e casuali. Mi preparavo un pasto a parte rispetto agli altri commensali, pesavo tutti gli alimenti con precisione chirurgica, eliminavo cibi che reputavo ipercalorici sulla base di convinzioni nazional-popolari e non cedevo mai ad alcuna tentazione, tant’è che nel giro di poco tempo ho iniziato a perdere molto peso.
Non ho mai raggiunto livelli di anoressia conclamata né sono mai stata ricoverata per questo disturbo ma, a dimostrazione del fatto che il mio corpo non stesse bene, sono andata incontro all’assenza del ciclo mestruale per ben nove mesi e alla perdita dei capelli, che apparivano sempre più sfibrati e diradati.
Dopo l’ossessione per il dimagrimento è arrivata la bulimia
Poi, alla fase del dimagrimento ossessivo ne è seguita un’altra, altrettanto insidiosa: quella della bulimia. Dopo aver negato a me stessa, per così tanto tempo, i cibi più disparati, ho iniziato a perdere il controllo: avvertivo un irrefrenabile desiderio che stuzzicava continuamente il mio appetito, invogliandomi a consumare anche quelle pietanze che, fino a poche settimane prima, consideravo inavvicinabili. E così, vinta da questa bramosia, mi abbuffavo con voracità insaziabile per poi «compensare» vomitando tutto quello che avevo ingerito poco prima. Strafogarmi di cibo mi dava un grandissimo piacere fisico, derivante dalle restrizioni alimentari che mi ero auto imposta, e quando subentrava il senso di colpa per aver trangugiato quelle golosità, mi sentivo comunque invincibile perché sapevo di avere una «scorciatoia».
La bulimia è così: facendoti credere di avere il pieno controllo sul tuo corpo e sulla tua testa relativamente al cibo, ti dà un’illusione di onnipotenza – puoi anche abbuffarti ma hai sempre una via di fuga – che però si traduce in una sudditanza psicologica fortissima. Nei momenti di lucidità mi guardavo da fuori e mi vergognavo terribilmente di questo atto così brutto e dannoso che mettevo in pratica dopo aver mangiato con ingordigia. Eppure non riuscivo a fermarmi, anzi, trovavo conferma del mio «potere» – che invece era solo una dipendenza – nei continui crampi della fame, nella magrezza, nel guardare il corpo rispondere ai miei comandi.
Non sempre i genitori hanno colpe
Oggi sul banco degli imputati si tende a mettere anche i genitori, spesso colpevolizzati per non aver colto i segnali del malessere dei figli. Prima di addossare responsabilità, però, bisogna considerare che la natura stessa della bulimia, che a differenza dell’anoressia non si manifesta esteriormente con un cambiamento fisico radicale, rende più complicato per mamma e papà scorgere i campanelli d’allarme. Oggi noi siamo molto più preparati rispetto a chi ci ha preceduto, abbiamo gli strumenti giusti per aiutare i nostri figli e aprire un confronto costruttivo con loro, anche su tematiche così importanti.
Bisogna sempre chiedere aiuto
Il primo passo da compiere, e che mi sentirei di suggerire a una ragazza o a un ragazzo con disturbi alimentari, è proprio quello di cercare un interlocutore, eventualmente anche un professionista, al quale confidare il proprio disagio e con il quale aprirsi liberamente. Proprio perché erano «altri tempi», io non ho chiesto aiuto a uno specialista: non sapevo come muovermi né ero informata a riguardo, forse non mi sarebbe neanche mai venuto in mente di fare una cosa del genere. Oggi, però, le cose sono cambiate e chiedere il supporto di uno psicologo o uno psichiatra è considerato normale.
Ho incontrato la persona giusta al momento giusto
Per la mia esperienza personale, rimango convinta che la spinta più potente per uscire da questo tunnel arrivi sempre dalle persone che, vicine fisicamente ma soprattutto mentalmente, riescono a cogliere il malessere e a guidarti verso una soluzione definitiva. E così è successo a me: ho incontrato la persona giusta al momento giusto. Un incontro del tutto casuale che, tuttavia, è stato in grado di risollevarmi completamente.
Nel periodo più buio ho conosciuto un ragazzo, che ricordo ancora con grandissimo affetto, che ha capito cosa mi stesse passando per la testa e, facendomi sentire amata per quello che ero, mi ha tirata fuori da questa voragine. Mi ha fatto capire che avrei dovuto avere un rapporto diverso con il mio aspetto fisico, che il cibo non era un nemico bensì un alleato, che un buon bicchiere di vino rosso ogni tanto avrebbe giovato al palato ma anche al mio umore. Pian piano mi sono accorta di non avere più quella percezione visiva sbagliata del mio corpo, ho iniziato a provare una nuova sicurezza in me stessa e ho sciolto quei nodi interiori che tanti danni avevano creato.
Francesca Cavallin