Roberta Maestri, 29 anni, logopedista di Roma, affetta da lupus eritematoso sistemico (LES), con il racconto qui ripreso parzialmente ha vinto il concorso «Diventa protagonista e scrivi la tua Storia», lanciato all’interno della campagna #MyLupusStory realizzata dal Gruppo LES Italiano ODV in collaborazione con GSK.
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Ho sempre detestato parlare del lupus
Ho scoperto di avere il lupus nell’agosto 2006 a Disneyland Paris. Ero un’indistruttibile 14enne. Impavida, irriverente e indomita. Credevo fermamente nell’infallibilità del mio mondo. Sfortunatamente un suo ingranaggio si è incastrato, il sistema corpo si è rivelato difettoso e ha danneggiato proprio il suo stesso fulcro vitale: il cuore e i polmoni. Ho cominciato ad avvertire delle forti fitte al petto proprio mentre mi scatenavo sulle montagne russe. Da lì, nell’arco di un mese una cascata inarrestabile di eventi mi ha travolta: il ricovero all’ospedale pediatrico, la pericardite, la pleurite, la diagnosi finale, il bombardamento di farmaci e le parole più difficili da inghiottire: «Non potrai guarire».
Il mio viso si è cominciato a gonfiare a dismisura, per gli effetti collaterali del cortisone e per la rabbia che covavo dentro. Mi sentivo come se, proprio sul più bello, mi avessero assestato un colpo paralizzante e poi mi avessero buttato in mare. La fortuna è stata che, sotto di me, invece delle onde c’era una famiglia che, come una rete di sicurezza, mi ha riportato a galla. A ogni modo, ho sempre detestato parlare del lupus. Ho trascorso anni a cucirmi meticolosamente addosso un vestito da supereroina calpestando le possibilità di mostrarmi vulnerabile. Da adolescente, fingevo una vita normale, nascondevo i farmaci anche alle amiche più strette e non parlavo a nessuno dei sintomi, dei day hospital e delle mie paure. Tacevo le fitte al petto, la stanchezza, i dolori articolari.
Ho comunque costruito la mia vita felice
La verità è che ho avuto una grande fortuna durata tanti anni, una tregua chiamata remissione di malattia. In questo spazio vitale ho costruito, mattoncino dopo mattoncino, la mia vita felice. Ho volato ogni anno in un angolo diverso del mondo con occhi curiosi e una giusta dose di imprudenza. Ho provato molti sport e li ho praticati con religiosa regolarità facendo dell’adrenalina una fedele alleata. Ho intrapreso un percorso universitario, mi sono laureata con la massima soddisfazione e ho cominciato a lavorare come logopedista. Non contenta, ho intrapreso un altro percorso, quello dell’osteopatia, giunto ormai quasi al termine. Sono andata a vivere per conto mio in una casa vicino alla mia famiglia arredata con creatività. Ho organizzato feste, cene, eventi in maschera, grigliate, trekking… In tutto questo periodo di vita mi sono regalata uno spazio d’ascolto intraprendendo un lungo percorso di psicoterapia che mi ha permesso di convogliare le energie nella giusta direzione. Infine mi sono innamorata di un ragazzo svitato almeno quanto me, con un cervello a forma di grande cuore che non smette di ricordarmi quanto sia fortunata.
Ho sentito l’urgenza di scrivere
Purtroppo lo scorso marzo la bestia si è risvegliata e sono stata ricoverata d’urgenza. Ancora una volta un attacco mirato all’organo che dirige l’orchestra: il cuore. Miopericardite. Il ricovero in isolamento Covid è stato devastante, mi ha piegata psicologicamente e fisicamente ma lo sconforto è durato un solo attimo. L’attimo seguente ero fieramente in piedi, camminavo lungo la corsia del reparto, chiacchieravo, strappavo qualche risata alle compagne di stanza e rassicuravo chi aveva appena ricevuto la mia stessa diagnosi. Per la prima volta, nella corsia isolata dell’ospedale, probabilmente nel più cupo momento della mia vita ho sentito l’urgenza di scrivere, di strappare il vestito da supereroina e sentirmi in diritto di essere fragile.
Ho buttato giù delle righe sul telefono e le ho pubblicate su Instagram sotto la foto del reparto in cui mi trovavo. Da quando ho premuto «invio» sul telefono mi sono sentita libera. Libera di parlare apertamente della malattia ai colleghi e agli amici, anche quelli meno stretti. Ora che il ricovero è finito, ho il desiderio di rassicurare chi ha a che fare con il lupus. In fondo è come se avessimo un pesante zaino sulle spalle di cui non possiamo in alcun modo liberarci. Il peso a tratti ci inchioda a terra schiacciando corpo e pensieri. Dopo aver imprecato per questa pazzesca sfiga, possiamo concederci solo un breve tempo distesi sotto la forza di gravità. Dopodiché dobbiamo scattare in piedi e reagire. Con uno zaino sulle spalle e un buon allenamento, si può imparare a scalare qualsiasi montagna!