Michela Morutto, 49 anni, impiegata, vive a Concordia Sagittaria (Venezia). Ha due figli, Mattia e Andrea, nati dal matrimonio con Paolo Piccoli, oggi 50 anni, affetto da Alzheimer precoce. La storia è raccontata anche nel libro di Serenella Antoniazzi, Un tempo piccolo (Gemma Edizioni). Il primogenito di Michela e Paolo, Mattia, è stato premiato con l’attestato di Alfiere della Repubblica per l’aiuto dato al papà colpito dalla malattia.
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Mio marito colpito da Alzheimer precoce a soli 43 anni
Quando si parla di Alzheimer, viene spontaneo associare questa malattia a una persona anziana, ma mio marito Paolo aveva solo 43 anni quando ne è stato colpito. I segnali che qualcosa non andasse c’erano già da qualche tempo: perdeva spesso le chiavi di casa, smarriva documenti e soldi, dimenticava continuamente qualcosa. All’epoca mi destreggiavo tra un lavoro a tempo pieno e due figli piccoli, di cui il minore in età da pannolino. Tra noi le litigate per le sue «distrazioni» erano all’ordine del giorno, finché l’ho convinto ad andare dal medico per fare qualche controllo. Oltre a degli esami di base, il dottore gli aveva prescritto una visita neurologica. Suo padre era stato colpito da una forma di demenza giovanile ed era morto a soli 58 anni. Paolo era stato un piccolo caregiver con il suo papà, era lui a imboccarlo o aiutarlo a farsi la barba quando ancora era bambino.
Per circa quattro anni siamo andati avanti tra esami, paura e tensioni. I test cognitivi a cui Paolo veniva sottoposto non rivelavano una situazione drammatica, eppure le sue condizioni peggioravano sempre più, tanto che anche sul lavoro – era addetto alla vigilanza in un supermercato – aveva ricevuto lettere di richiamo fino a essere demansionato. Cercavo di dividermi tra il lavoro, la casa, i bambini e Paolo che richiedeva sempre più attenzioni. A volte ero disperata perché, anziché trovare un aiuto in mio marito, dovevo prendermi cura di lui come un altro figlio.
La situazione è degenerata durante il lockdown
La situazione è precipitata nel 2018, quando è arrivata la diagnosi, dopo un ricovero in day hospital in un ospedale di Padova: «Alzheimer presenile con mutazione nota». Non avevamo più speranze che Paolo potesse guarire da una malattia senza cura. E mi sono sentita profondamente abbattuta dopo che, a causa della sua giovane età, è stato escluso da un trial con un farmaco sperimentale in cui avevamo riposto le nostre speranze. Nel frattempo la malattia fluttuava. C’erano peggioramenti repentini, poi per mesi rimaneva stabile, poi di nuovo un regresso improvviso. I medici mi avevano spiegato quanto importante fossero gli stimoli per cui cercavo di organizzargli occasioni di socializzazione e svago, come inserirlo in una squadra di baskin, un’attività sportiva che somiglia al basket per far giocare insieme disabili e normodotati.
L’organizzazione quotidiana era molto difficile per me. Con una persona malata di Alzheimer in casa, bisogna essere in allerta 24 ore su 24. Per fortuna ho potuto far conto sui miei genitori per la gestione dei bambini, ma la situazione è degenerata durante il lockdown. Abbiamo dovuto interrompere qualsiasi rapporto sociale e Paolo ne ha risentito molto. Chiusi in casa, senza più alcuno stimolo esterno, è diventato sempre meno vigile. L’Alzheimer galoppava veloce e io non sapevo più come fare. E quando ha iniziato a scappare di casa e ad avere le allucinazioni, ho avuto paura di non riuscire più a controllare la situazione.
Ho paura che Mattia e Andrea possano ereditare la malattia
I medici ci hanno parlato di una RSA dove mio marito sarebbe stato seguito giorno e notte. Così, da luglio 2020, Paolo è entrato in struttura: con i bambini, possiamo andare a trovarlo tutte le settimane e i giorni che non possiamo essere fisicamente con lui, ci organizziamo con videochiamate e telefonate. Lo scorso ottobre mio marito ha compiuto 50 anni e l’abbiamo portato a casa per festeggiare tutti insieme. I nostri figli gli avevano organizzato una bella festa, nonostante in sottofondo prevalga sempre in me il dolore per ciò che ci ha colpito. E ho paura che Mattia e Andrea possano ereditare la malattia, anche se non potremo saperlo finché non avranno 18 anni, quando decideranno se sottoporsi ai test genetici.
Nel frattempo, mettiamo in atto tutto quanto può essere di aiuto a livello di prevenzione: adottare un’alimentazione sana con dieta mediterranea, vivere all’aria aperta e praticare attività sportiva, avere un buon livello di cultura come riserva cognitiva. E spero che in ambito sociale qualcosa cambi perché famiglie come la nostra non vengano abbandonate alle proprie difficoltà. La pensione di invalidità di Paolo non basta nemmeno a coprire la retta della RSA. Quando abbiamo deciso di esporci pubblicamente, abbiamo ricevuto molta solidarietà virtuale. Vorrei che si abbattesse lo stigma che avvolge la malattia a favore di una maggiore inclusione sociale. Anche per questo abbiamo deciso di raccontare la nostra storia nel libro Un tempo piccolo (Serenella Antoniazzi, Gemma Edizioni), nella speranza di sensibilizzare sempre più persone, e dare coraggio ad altri malati e caregiver.