Enzo Soresi ha una risata entusiasta. Ce l’ha quando ti racconta gli innumerevoli aneddoti della sua carriera, fatti che l’hanno stupito, meravigliato e che oggi, a 83 anni, ricorda con la lucidità che solo certi saggi anziani possiedono. Ride anche quando spiega che il titolo del suo ultimo libro, “Come ringiovanire invecchiando”, non è una provocazione ma qualcosa che ha vissuto sulla sua pelle. Lui, che nel marzo 2020, nel pieno della pandemia, ha contratto il coronavirus ed è sopravvissuto, attribuisce il merito allo stile di vita perpetrato negli ultimi dieci anni quando, scoprendo di avere una sindrome metabolica, ha iniziato a seguire un’alimentazione a basso contenuto di carboidrati e a tenere sotto controllo i livelli di insulina, che oggi sono pari a quelli di quando era bambino.
Dopo oltre trent’anni di attività clinica come primario al Niguarda, nella sua Milano, in cui ha cambiato il modo di trattare e prevenire il tumore al polmone, Soresi non ha mai smesso di studiare, aprendosi, tramite la sua idea di medicina olistica, a tutti i distretti del corpo umano. Passando dall’estremamente piccolo, il mitocondrio, all’estremamente complesso, il cervello. E in questo periodo contraddistinto dal Covid, ad attirare la sua attenzione sono i pazienti che stanno sviluppando una serie di patologie dovute, ipotizza, ai danni mitocondriali indotti dal virus. In cantiere c’è persino l’apertura di un centro clinico milanese dedicato a loro, perché ciò che lascia il Covid non sono solo strascichi, ma reali malattie, che devono essere trattate a una a una in modo specifico.
Professor Soresi, cos’ha combinato il Covid al nostro corpo?
«Per spiegarvelo devo partire da piccoli organelli, i mitocondri, che sono le nostre centrali energetiche perché la loro funzione è quella di fornire ossigeno e nutrimento a ogni cellula. Quindi, se stanno bene loro, stiamo bene anche noi. Ne possediamo miliardi, dalla testa ai piedi, soprattutto nei muscoli e nel cervello. Da due anni collaboro con SoLongevity, un progetto scientifico che si occupa di longevità e promuove l’invecchiamento in buona salute.
Recentemente ci stiamo concentrando sul post Covid. E dato che il virus si manifesta con una moltitudine di disturbi, non solo polmonari, ma anche con dermatiti, perdita di memoria, disturbi cognitivi, neuropatie, debilitazione e astenia, ipotizziamo che ci sia un deterioramento mitocondriale. Il nostro obiettivo è individuare questi danni attraverso esami innovativi, che stiamo studiando in collaborazione con l’Università Statale di Milano, per visualizzare il Dna e il metabolismo dei mitocondri e capire come curare i pazienti in modo efficace».
Nel 2015 a questi organelli ha dedicato un intero libro, “Mitocondrio mon amour”. Perché questa dichiarazione d’amore?
«Perché nel 2012 sono rimasto affascinato da uno studio condotto negli Stati Uniti, in cui i ricercatori hanno confrontato le biopsie del quadricipite della coscia di venti sessantenni e quelle di altrettanti giovani sportivi. Risultato: le cellule vecchie avevano mitocondri vecchi, le cellule giovani possedevano mitocondri giovani e in forma. Così gli scienziati americani hanno allenato il campione di anziani per quaranta minuti in pedana tre volte a settimana e dopo sei mesi hanno ripetuto la biopsia. Risultato? Le cellule vecchie rimanevano vecchie, ma i loro mitocondri erano ringiovaniti. Ed ecco il mio “mitocondrio mon amour”. Più noi facciamo attività fisica, più loro sono felici, si distendono, si moltiplicano e producono sostanze antinfiammatorie, cioè le mitochine».
Per prenderci cura dei nostri mitocondri dobbiamo fare attività fisica e mangiare bene. Però poi arrivano malattie come il Covid che rovinano tutto. Sono danni reversibili?
«Come dicevo, l’invecchiamento dei mitocondri si può rallentare con lo stile di vita. Mentre per quanto riguarda i danni “esterni” dobbiamo ancora capire se è possibile rimediare con delle terapie specifiche. Per ora ai miei pazienti suggerisco attività fisica moderata e mangiare sano, oltre che dei nutraceutici. Azzardando una metafora, si potrebbe dire che per affrontare il braccio di ferro contro il Covid – come contro molte altre malattie su base infiammatoria – è meglio farsi i muscoli praticando quell’attività fisica che dia la sveglia ai mitocondri e li faccia sfornare mitochine antinfiammatorie in gran quantità.
Per le cure specifiche dobbiamo anche comprendere meglio quanto incida la genetica. Da tre anni aiuto un notevole numero di pazienti che a seguito di terapie con farmaci chinolonici sono diventati praticamente invalidi. Si sapeva già che questi farmaci, negli anziani, causavano problemi, come la rottura del tendine di Achille e confusione mentale, ma queste persone fanno i conti con problemi a lungo termine e in vari punti del corpo. È una condizione che va compresa meglio e approfondita sul piano genetico. Il mio obiettivo è trovare qualcosa che migliori questo status affinché non diventi irreversibile».
In Italia, e in parte del mondo, si sta procedendo con la terza dose del vaccino anti-Covid sui pazienti più fragili. Lei come vede un’eventuale cronicizzazione del vaccino su tutta la popolazione?
«Io sono sempre stato un sostenitore dei vaccini. Mi sono innamorato del sistema immunitario fin dall’inizio della mia carriera, quando in uno studio congiunto con l’Università di Vienna ho impostato una terapia su pazienti operati di tumore polmonare in stadio avanzato con vaccino antitubercolare a cadenza mensile per un anno ottenendo una riduzione delle recidive a cinque anni del 10%. Il sistema immunitario è un sistema cognitivo affascinante e più noi lo stimoliamo, più lui agisce. Sono d’accordo con la terza dose per gli immunodepressi e i fragili, poi progressivamente dovremo convivere tutti con il virus e anche con il vaccino. I migliori sono quelli a mRna, perché sono vettori meno aggressivi dell’adenovirus, tant’è vero che la Pfizer ha da poco validato il suo prodotto (in un terzo di dose rispetto a quella degli adulti) anche per i bambini sotto i sette anni».
Nella sua carriera si è occupato prevalentemente di neoplasie polmonari e ha pubblicato sull’argomento oltre 150 lavori scientifici su riviste nazionali ed internazionali. Da questo punto di vista, il Covid potrebbe favorire l’insorgenza in futuro di problemi ai polmoni nelle persone guarite che hanno subito danni e cicatrici permanenti a causa della malattia?
«Una delle caratteristiche di questo virus è quella di scatenare polmoniti infiammatorie. Non batteriche, come quelle che ho vissuto nel ‘68 durante l’influenza di Hong Kong. Infatti allora si moriva per un’inadeguatezza delle terapie antibiotiche. Nel caso del Covid, invece, c’è un virus che attacca le cellule immunitarie e scatena citochine infiammatorie che vanno a bombardare il polmone. Se queste citochine non vengono debellate immediatamente si depositano e creano un danno polmonare. La terapia da perseguire per cancellare questi danni è il cortisone a dosaggi elevati.
Ho trattato parecchi pazienti post Covid in questo modo, con ottimi risultati nella maggior parte dei casi. Anche se in alcuni è rimasto un danno dell’interstizio polmonare, quindi un deficit respiratorio perché è diminuita la superficie che scambia ossigeno, deficit riscontrabile tramite un esame spirometrico che si chiama transfer alveolo capillare. Il rischio che possa evolvere in tumore esiste, soprattutto se si è o si è stati fumatori. Quindi è fondamentale che chi si è ammalato di Covid si sottoponga a una Tac al torace. Se vengono rilevati dei danni, consiglio vivamente di abbandonare le sigarette, tenere monitorata la situazione con degli esami annuali e far fare attività fisica. Da quindici anni propongo ai miei pazienti uno strumento per allenare i muscoli respiratori. Se sono giovani, invece, li invito a giocare a tennis».
La Tac come strumento di prevenzione per il tumore al polmone è uno dei suoi cavalli di battaglia…
«Purtroppo il nostro sistema sanitario non prevede questo esame a scopo preventivo, ma io lo consiglio ai pazienti che fumano da circa 30 anni, specie agli over 50. La Tac senza contrasto è in grado di identificare tumori polmonari di piccole dimensioni, quindi se si esegue a cadenza annuale si può intervenire in tempo, chirurgicamente, anche guarendo i pazienti».
Cosa che invece non si può fare con le neoplasie polmonari avanzate, scoperte troppo tardi.
«Esatto. Quando sono arrivato al Niguarda nel 1970 mi sono trovato su ottanta letti circa settanta malati di tumore polmonare, la prevalenza inoperabili. Nella divisione di chirurgia toracica De Gasperis, invece, si operavano regolarmente 400-450 pazienti l’anno. Io iniziai a seguirli nel post-operatorio, perché iniziava proprio in quegli anni la somministrazione della chemioterapia dopo l’intervento, con l’aspettativa che questa cura, in un tumore ad alto rischio di recidive e metastasi, riducesse il ritorno della malattia. I chirurghi avevano la presunzione che l’azione chirurgica guarisse i pazienti, ma in realtà tutti i nostri lavori scientifici (per vent’anni, con pneumologi di tutta Europa, mi sono impegnato a sviluppare protocolli post-chirurgici su pazienti operati in stadi avanzati) stavano dimostrando l’esatto contrario. E cioè che i casi più gravi non andavano operati perché né la chirurgia, né la chemio post intervento riducevano le recidive.
Purtroppo nessuno dei nostri singoli lavori aveva un peso statistico, così colleghi francesi e inglesi raccolsero in una meta-analisi circa seimila pubblicazioni e ci convocarono nel 1994 a Cambridge per i risultati. Cosa emerse? Che, proprio come sostenevamo, i pazienti con tumore polmonare avanzato, anche con la chemio post-chirurgica, non modificavano il loro percorso di vita e morivano di recidive in tempi abbastanza brevi. Fu una scoperta fondamentale perché da quell’anno tutti i chirurghi si fermarono e da allora si operano solo i pazienti con tumore polmonare al primo stadio. Ecco quindi l’importanza della prevenzione con la Tac a spirale da eseguire ogni anno nei fumatori sopra i 50 anni».
Cosa pensa della diffusione delle sigarette elettroniche? Umberto Veronesi le considerava poco dannose, una strada da percorrere per abbassare l’incidenza del cancro polmonare. Ai tempi di Veronesi gli studi sulle e-cig, però, erano ancora pochi, e oggi stiamo scoprendo che non sono così innocue come si pensava…
«Partiamo dal presupposto che io cerco di far smettere sempre tutti. Ma se uno passa dalla sigaretta tradizionale a un riscaldatore di tabacco oppure alla sigaretta elettronica, significa che passa dalla combustione del tabacco, il processo che nel fumo produce le sostanze cancerogene, all’assenza o alla netta riduzione di combustione. Perciò sì, sono d’accordo: questi dispositivi possono essere un passaggio intermedio per accompagnare il fumatore all’abbandono delle sigarette. Personalmente aiuto i pazienti che vogliono smettere con un integratore alla citisina. È molto interessante perché mitiga gli effetti dell’astinenza e facilita l’addio graduale al fumo. Ma dev’esserci grande motivazione, ovviamente».
Terminata l’attività clinica, nel 1998 lei decide di seguire la sua passione per l’organo cervello, iniziando un percorso di studio, approfondimento e ricerca scientifica nella neurobiologia. Questo percorso lo ha convinto che la nostra salute e il modo in cui invecchiamo dipende da un network formato da sistema endocrino, sistema immunitario e sistema nervoso centrale.
«Il mio interesse per la neurobiologia si è dipanato per i trent’anni in cui ho lottato contro il microcitoma polmonare. Cosa c’entra?, mi chiederà lei. C’entra perché il microcitoma è un tumore a struttura neuroendocrina, cioè sistemico, perché le cellule neuroendocrine sono quelle che producono ormoni, proteine, neurotrasmettitori e così via. Ai tempi mi capitava di ricevere pazienti con una malattia autoimmune e poi scoprivo che avevano anche un microcitoma nel polmone. Ciò significava che le loro cellule neuroendocrine, impazzite perché tumorali, producevano sostanze che poi favorivano lo sviluppo di altre malattie.
Da qui la mia apertura alla Pnei, cioè alla psiconeuroendocrinoimmunologia, argomento sviluppato nel libro pubblicato nel 2006, Il cervello anarchico, nato dai confronti amichevoli con il filosofo Umberto Galimberti, che mi provocava dicendo che la medicina si occupa solo degli organi mentre io gli rispondevo che alla luce della Pnei la medicina è per necessità olistica, cioè non può focalizzarsi solo su cuore, fegato, polmone o cervello, ma su tutto l’organismo perché tutto è connesso. Le cellule immunitarie parlano con quelle neuroendocrine tramite i neurotrasmettitori e tutto questo mondo di comunicazioni da chi è governato? Dalle emozioni. E le emozioni dove sono? Nelle strutture limbiche, ossia le strutture del cervello che potremmo definire arcaiche».
Quindi il nostro cervello e i nostri organi sono strettamente connessi nella genesi e nella prognosi di una malattia?
«Noi riteniamo che il cervello sia un organo primario, invece è secondario. Pensiamo di essere Sapiens, ma in realtà il corpo ha un’influenza su di noi e sul nostro cervello molto più che il contrario. Penso che ormai i tempi siano maturi affinché anche gli psichiatri non si limitino a prescrivere psicofarmaci ma pongano la loro attenzione all’organismo nella sua globalità. Perciò parlo di un “Io biologico” e di un “Io neurale”. L’Io neurale è la nostra coscienza, ma interviene sul nostro Io biologico al 10%, perché per il 90% il corpo fa quello che vuole. Quindi qual è la via da percorrere per preservare la salute? La gestione dello stile di vita, quindi l’attenzione al fumo, all’attività fisica, all’alimentazione, alle relazioni, al controllo dello stress e del sonno».
Da qui la sua idea di medicina integrata. Cosa significa?
«Significa che è necessario utilizzare tutto ciò che abbiamo a disposizione, al netto della letteratura scientifica, per raggiungere una cura, il benessere, un miglioramento. Per questo per me è interessante, nonostante non sia un mio diretto filone di ricerca, l’utilizzo delle droghe psichedeliche nella pratica clinica. Nel 1962 incontrai uno psicanalista, Emilio Servadio, che somministrava l’Lsd (una delle più potenti sostanze allucinogene, ndr) ai suoi pazienti e in tre sedute otteneva i risultati di trent’anni di psicoanalisi.
A quei tempi le droghe erano molto utilizzate, specialmente in psicoterapia, poi sono state demonizzate e oggi sono quasi scomparse. Tuttavia, nell’ultimo ventennio c’è stata una ripresa di studi su sostanze psichedeliche, come Lsd e psilocibina. Al Memorial Hospital di New York, ad esempio, la seconda viene data in un’unica dose ai pazienti terminali affinché passi loro l’angoscia della morte. A Londra, invece, è in corso uno studio randomizzato per confrontare l’effetto della psilocibina e degli antidepressivi sui depressi gravi».
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