Come ci aveva spiegato l’esperto di psicologia clinica Roberto Pani, molte persone sviluppano maggiore empatia con gli animali domestici piuttosto che con gli umani e, soprattutto nel caso di persone anziane o malate, la genuinità e l’affetto di cani e gatti le aiuta a stare meglio.
La riconoscenza verso il ruolo dei nostri amici a quattro zampe arriva direttamente dalla testimonianza di persone con gravi disturbi psichici che, interrogate per uno studio inglese, hanno collocato cani, gatti e altri “pet” tra i fattori più importanti nella gestione della loro salute mentale. Gli animali domestici sono stati messi sullo stesso piano di amici, familiari, operatori sanitari e hobby dal 46% degli intervistati (il campione totale era di 54 persone).
I risultati dello studio, condotto dai ricercatori dell’Università di Manchester presso servizi sanitari a Manchester e South Hampton e pubblicato sulla rivista Bmj Psychiatry, hanno messo in evidenza ancora una volta il ruolo importante degli animali da compagnia al fianco delle persone malate, già confermato per alcune patologie cardiovascolari, nei bambini autistici e anche nel processo di rianimazione.
Secondo le motivazioni date dai pazienti in cura per disturbi psichici, gli animali domestici sono prima di tutto un diversivo e una distrazione da sintomi classici delle malattie mentali, come sentire voci o avere pensieri suicidi.
Poi stimolano sentimenti di accettazione incondizionata e un senso di responsabilità altrimenti non presente nella vita quotidiana dei pazienti, che prendendosi cura di un cane o di un gatto si sentono di conseguenza più partecipi all’interno della società, più rispettabili e, in qualche modo, meno “malati” agli occhi degli altri.
Non solo: i pazienti hanno anche dichiarato che gli animali da compagnia aiutano loro a tenere maggiormente sotto controllo la situazione, alimentando un senso di sicurezza, routine e continuità.
«Nonostante i vantaggi, gli animali domestici non erano però previsti nei singoli piani di assistenza per nessuna delle persone del nostro studio – commenta Helen Brooks, autrice principale dello studio – Questi risultati suggeriscono possibili aree per indirizzare meglio gli interventi».
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