La persona più anziana del mondo, al momento in cui è scritto questo articolo, si chiama Kane Tanaka, ha 118 anni e vive in Giappone. In Italia, invece, è la signora Marietta, 112 anni, residente a Piazza Armerina, in Sicilia. E in futuro, quanti anni vivremo? Sempre di più o sempre di meno? Per rispondere a questa domanda ci vorrebbe una sfera di cristallo oppure Valter Longo, uno dei massimi esperti di longevità al mondo, colui che ha scoperto i geni che regolano l’invecchiamento e che ha incontrato centenari di tutto il mondo per capire i loro misteri e carpire i loro segreti.
«Un domani ci saranno due popolazioni», profetizza Longo, «quelli che arriveranno fino a 110 anni perché seguiranno tutti gli strumenti che la scienza e la conoscenza ci ha dato per vivere a lungo e quelli che arriveranno a 65 anni e poi inizieranno a fare i conti con le pillole per il colesterolo, la pressione, il cuore. Ognuno può decidere, al netto della genetica, da che parte stare. Perché ci sono persone che grazie ai loro geni possono fare quello che vogliono. Pensiamo a Emma Morano, supercentenaria italiana, arrivata a 117 anni mangiando tre uova al giorno. Lei veniva da una famiglia con geni della longevità, ma questi sono rari e per essere longevi bisogna impegnarsi».
Partito a 16 anni per gli Stati Uniti con il sogno di diventare una rockstar, Valter Longo oggi si divide tra Los Angeles, dov’è direttore dell’Istituto di Longevità della California, e Milano, dove dirige il programma di Oncologia e Longevità presso l’Istituto Firc di Oncologia Molecolare. È chiaro da che parte ha deciso di stare lui.
Professore, quali sono i segreti per vivere a lungo che lei mette in pratica tutti i giorni?
«Faccio il primo pasto alle nove del mattino e l’ultimo entro le nove di sera, per garantirmi dodici ore di digiuno. Poi seguo una dieta pescetariana, cioè vegana ma con il pesce, non bevo alcolici, cammino un’ora e mezza tutti i giorni, e non uso mai ascensori. Sono molto attento al peso: pensate che se prendo qualche chilo recupero immediatamente e una volta all’anno seguo uno-due cicli di dieta mima-digiuno all’anno».
Nel 2001 scopre l’esistenza di mutazioni genetiche in grado di regolare la longevità nei microorganismi e poi che gli stessi geni possono trovarsi anche nell’uomo. Nel 2005 individua cento persone in Ecuador con questa mutazione, protette da molte malattie, compreso il cancro. Com’è stato incontrare la prova umana di ciò che stava cercando di dimostrare?
«È stato emozionante e molto importante, perché all’inizio non ero stato preso seriamente. I concetti di genetica e invecchiamento erano davvero innovativi a quel tempo, figuriamoci sostenere che l’organismo umano potesse avere gli stessi geni della longevità trovati in microrganismi come il lievito e i topi. Era considerata un’assurdità. Poi la scoperta di quei cento abitanti dell’Ecuador, che ha sorpreso anche me: davvero, non pensavo di incontrare persone protette da molte patologie, dal diabete ai tumori. Soprattutto perché tra i loro parenti, che vivevano nelle stesse case e quindi ne condividevano lo stile di vita, l’insorgenza di cancro era molto comune».
Purtroppo queste mutazioni genetiche sono rare. Quindi lei ha condotto studi in parallelo sulla nutrizione e sulla genetica per capire come «imitare» questa mutazione attraverso la dieta e lo stile di vita.
«Sì, abbiamo dimostrato che inibendo i geni che regolano l’invecchiamento, come l’ormone della crescita, si può prevenire l’avanzata delle neoplasie. In diversi studi io e il mio gruppo di ricerca ci siamo resi conto che zuccheri, proteine e aminoacidi influenzano la via metabolica e l’espressione di geni che, non solo accelerano l’invecchiamento, ma spingono anche verso il sovrappeso e l’obesità, a loro volta potenziali cause di svariate malattie croniche come diabete, sindrome metabolica, tumori. Lo abbiamo rilevato nei topi e poi nel 2014 nell’uomo, con un’indagine epidemiologica sulla popolazione americana: chi mangiava meno proteine, soprattutto provenienti dalla carne rossa, aveva un rischio di tumore ridotto di quattro volte. Anche questa affermazione sorprese la comunità scientifica di allora, ma i dati parlavano chiaro ed erano consistenti con quelli delle persone mutate dell’Ecuador».
Le proteine, soprattutto quelle animali, hanno una pessima reputazione, in particolare da quando l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato l’allarme sulla carne rossa lavorata e processata. Sono il grande nemico della nostra salute?
«Insieme agli amidi, agli zuccheri e ai grassi animali, se consumate in abbondanza possono farci male. Ma non mi piace estremizzare e non bisogna farlo. Il punto è che oggi, nella dieta occidentale, c’è una sovrabbondanza di fonti proteiche e di certi tipi di carboidrati, che io chiamo 5 P (proteine, pane, pasta, pizza e patate) anche nei piccoli. Questo ha un peso sulla loro salute nel breve e nel lungo termine. Bambini e ragazzi in sovrappeso tra i 7 e i 18 anni hanno quattro volte più possibilità di sviluppare il diabete in futuro. E la popolazione del futuro sono loro. Io mi divido tra America e Italia e purtroppo i nostri giovani non sono messi molto meglio dei coetanei oltreoceano. Pensare che viviamo nella patria della dieta mediterranea, ma abbiamo tassi di sovrappeso e obesità molto vicini a quelli statunitensi».
Le sue ricerche sulla nutrizione si sono arricchite incontrando i centenari e osservando le loro abitudini a tavola, specie in Italia. Proprio il paese calabrese dei suoi genitori, Molochio, possedeva un numero record di persone longeve.
«Studiare la tavola dei centenari è stato utile per confermare ciò che stava emergendo dai miei studi. Come il discorso delle proteine: le diete a basso contenuto proteico sono tipiche dello stile di vita dei centenari, ad esempio della Calabria o della Sardegna. Non che i nostri avi non mangiassero carne, attenzione, ma un tempo l’alimentazione era inevitabilmente più povera e la bistecca o la fetta di lardo si mangiavano una volta a settimana».
Dai suoi studi sui centenari è nata una dieta con cui ha intitolato il suo primo libro, “La dieta della longevità”, pubblicato nel 2016. Quali sono i suoi pilastri?
«Se dovessi sintetizzarli in pochi punti direi ridurre al minimo gli zuccheri cercando di assumerli soprattutto dalla frutta e diventare pescetariani, quindi eliminare la carne a favore di pesce, crostacei e molluschi mangiando tanta verdura. Poi consumare legumi come principale fonte di proteine, usare spesso l’olio extravergine di oliva e inserire un pugno di frutta secca al giorno. Una sorta di dieta mediterranea, ma alleggerita di carne rossa, pane, pasta, patate e spostata verso le verdure e il pesce, guardando alle ricette pescetariane dei nostri nonni e bisnonni».
Dopo la dieta della longevità, il secondo schema alimentare per cui è famoso è quello della mima-digiuno. Cosa significa imitare il digiuno?
«Significa riportare indietro le lancette dell’organismo, in una condizione più salutare e funzionale. O almeno, così dimostrano gli studi sugli animali e i primi clinici sull’uomo che abbiamo condotto nei nostri laboratori e ospedali. L’ispirazione è antica: i nostri antenati d’estate mangiavano molto di più, diventavano sovrappeso, insulino-resistenti e potenzialmente pre-diabetici. Poi durante l’inverno o nei periodi di carestia non mangiavano. La mima-digiuno è la risposta tecnologica e moderna a uno schema antico che faceva bene ai nostri antenati, il cui obiettivo non era certo vivere fino a 100 anni, ma di campare almeno fino a 40-50, se erano fortunati, e poi morire.
Dico risposta “moderna” perché ovviamente la mima-digiuno non dice di stare senza cibo per settimane o mesi, perché questo sappiamo non solo essere difficile e pericoloso, ma anche associato a un rallentamento del metabolismo. Invece con la dieta mima-digiuno abbiamo unito la conoscenza del nostro passato con quella attuale per ottimizzare gli effetti. Il mio consiglio è di farla sotto controllo di un medico, o di un nutrizionista, perché è impegnativa e si assumono calorie fortemente ridotte: il primo giorno 1.100 poi 800, solo da verdure, frutta secca, olio d’oliva e in abbinamento a integratori omega 3».
Perché fa bene?
«A livello cellulare non abbiamo potuto fare esperimenti sugli uomini, ma abbiamo visto cosa accade nei topi ed è davvero incredibile: dopo cinque giorni di mima-digiuno le cellule di vari organi si rigenerano e quelle del sistema immunitario iniziano a ricambiarsi e a ridistribuirsi. In pratica, molte delle cellule danneggiate o già malate muoiono mentre le cellule ematopoietiche staminali si attivano e quando l’organismo torna a mangiare danno vita a nuove cellule immunitarie e staminali. In sostanza, c’è un sorta di rigenerazione e rinnovamento cellulare. Gli studi clinici sull’autoimmunità sono promettenti, ma siamo ancora agli inizi».
La mima-digiuno sarebbe un’arma di prevenzione contro le malattie croniche, ma nel suo ultimo libro, “Il cancro a digiuno”, alza l’asticella sostenendo che potrebbe avere anche un ruolo terapeutico. Cosa significa “affamare” il cancro?
«Significa rendergli la vita difficile. Dobbiamo pensare che i tumori sono nati e si sono sviluppati nell’abbondanza della dieta occidentale. Sguazzano tra proteine, aminoacidi, zuccheri mentre in condizioni di carestia faticano a sopravvivere. Se abbiniamo la mima-digiuno ai farmaci contro il cancro (dall’immunoterapia alla chemioterapia) gli diamo del filo da torcere. Mi piace usare l’analogia di Napoleone che invade la Russia. Quando le truppe francesi varcano il confine, i russi iniziano a ritirarsi, facendo morire di freddo l’esercito di Napoleone che arriva sfiancato a Mosca, dove subisce l’attacco definitivo dei nemici.
Nel nostro schema, la terapia medica rappresenta i russi a Mosca, mentre l’infreddolimento è la dieta mima-digiuno, la fame che indebolisce il tumore prima di ricevere l’attacco da parte dei farmaci. In questo modo riusciamo a sorprendere il cancro perché, a differenza delle cellule sane, che si adattano al digiuno forti dell’esperienza di tre miliardi di anni di evoluzione, dai microrganismi fino all’uomo, le cellule tumorali sono più giovani e sprovvedute, dato che hanno perso questa intelligenza acquisendo mutazioni. Ovviamente affamare il cancro non vuol dire affamare il paziente. Perché altrimenti dovremmo fare i conti con tutti i rischi e le conseguenze legate alla malnutrizione e alla fragilità».
Per un paziente in cura oncologica non può essere pesante, psicologicamente e fisicamente, seguire cicli di dieta mima-digiuno?
«Esclusi i pazienti che non possono farla per motivi di peso, su 400 pazienti degli studi clinici internazionali che stiamo conducendo abbiamo riscontrato difficoltà e resistenze a sostenere la mima-digiuno solo in un 10% circa dei casi. La maggioranza non ha avuto problemi. Credo sia importante approfondire e comprendere la potenzialità di questo abbinamento, dieta più terapia, perché nei topi è riuscito persino ad avere effetti curativi. Sono fiducioso: per ora le evidenze migliori sull’uomo le abbiamo avute sulle donne con tumore al seno. In chi faceva sei-otto cicli di mima-digiuno durante altrettanti cicli di chemioterapia, la percentuale delle pazienti resistenti ai farmaci scendeva di ben cinque volte».
Si dice che la medicina occidentale abbia sempre bistrattato la nutrizione negli ospedali. E che solo negli ultimi anni le stia dando l’attenzione e il peso che merita. È d’accordo? Siamo pronti a considerare la dieta una terapia?
«Non siamo pronti perché quasi nessuno ha ricevuto una formazione specifica in questo settore. È ovvio che la maggior parte degli oncologi sta iniziando a capire che non si tratta di mangiare carote o meno. Ma di effetti potenti sul metabolismo, che possono addirittura rivoluzionare l’efficacia di una terapia. Deve però esserci un cambiamento di mentalità: non bisogna più chiamarla dieta o nutrizione, ma “nutritecnologia”, perché effettivamente stiamo usando il cibo come un farmaco. Dosiamo aminoacidi, carboidrati e ogni singolo ingrediente per modificare l’ormone della crescita, l’insulina, la glicemia e così via, potenziando una cura. La nutritecnologia ha l’obiettivo di rivoluzionare il sistema metabolico di un paziente. Di rendere l’organismo così ostile alla cellula cancerosa che lei non riuscirà a sopravvivere. È una guerra su vari fronti».
Che speriamo di vincere. Lei è andato in America col sogno di diventare chitarrista rock. Non è successo, ma nel 2018 Time l’ha inserito tra le 50 persone più influenti al mondo proprio per queste ricerche sulla longevità, il digiuno e la prevenzione dei tumori. Non si sente molto rock anche se è uno scienziato?
«Devo dire che l’esperienza che mi ha fatto sentire più vicino a una rockstar è stata quando ho pubblicato il mio primo libro, nel 2016. Per promuoverlo ho fatto un tour mondiale e inaspettatamente ha ottenuto un risultato incredibile. Così, proprio come un artista con il suo primo album, ho guardato il libro scalare le classifiche. In Italia è rimasto in testa per oltre un anno! Ecco, devo dire che in quell’occasione mi sono sentito come se avessi prodotto un singolo di successo mondiale, quasi come le rockstar».
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