L’Alzheimer è una malattia “beffarda”: non ti uccide immediatamente, ma strappa un pezzo di te poco alla volta. Si prende gioco dell’identità stessa di una persona, crea scompiglio nella testa, fino ad arrivare in alcuni casi ad annientare le funzioni cognitive. Questa patologia neurodegenerativa, che solo in Italia interessa più di 600mila persone, non lascia scampo, costringendo chi ne è affetto a un progressivo declino fisico e mentale. Ed è proprio sulla centralità del paziente che si sofferma Lettere a mia figlia, il film breve diretto da Giuseppe Alessio Nuzzo, prodotto da Pulcinella Film in collaborazione con Paradise Pictures e in lizza ai David di Donatello 2017. La pellicola ha la forza di raccontare il decorso dell’Alzheimer dall’insolito punto di vista di un uomo, interpretato da Leo Gullotta, che si ritrova improvvisamente nel tunnel della malattia.
«Si tratta di un progetto “pieno”, composto da due tasselli: da un lato abbiamo la fiction, che ha il compito di ricostruire e narrare la storia di questo uomo malato, dall’altro troviamo una parte scientifica, con interviste a neurologi, ricercatori e operatori sanitari per spiegare obiettivamente cos’è l’Alzheimer» racconta l’attore. Dall’alto dei suoi 54 anni di carriera, trascorsi tra palchi teatrali, set televisivi e cinematografici, l’attore ha accettato la sfida (peraltro rifiutando ogni tipo di compenso), per dare voce a questo malato.
Mi ha colpito molto una frase del suo personaggio, che è: «Non potrò più essere quello che ero». E allora partiamo proprio da qui. Leo Gullotta, qual è la storia di questo uomo con l’Alzheimer?
L’uomo che interpreto in Lettere a mia figlia non viene mai chiamato per nome: è solo un anziano padre. Questo perché la malattia è entrata lentamente nella sua vita, strappandogli via l’identità, la personalità e la dignità. E se queste condizioni vengono a mancare, la persona smette di esistere, di essere. Insomma, non è più nessuno. Questa è la storia di un papà vecchiotto che, dopo aver aver vissuto una vita ricca di emozioni accanto alla moglie e alla figlia, rimane intrappolato nella malattia. Giorno dopo giorno inizia a rendersi conto di non essere più lo stesso e comprende che la sua esistenza sta cambiando. Per questo motivo inizia a scrivere delle lettere alla figlia ormai grande, per imprimere su carta ricordi, sensazioni, dolori, paure che prima o poi l’Alzheimer porterà via. Alla fine di questo percorso “letterario”, l’uomo sarà “annientato” totalmente, tanto da non riuscire più nemmeno a scrivere una parola. Su quei fogli ci saranno solo scarabocchi.
Come si fa a raccontare con parole, gesti e sguardi una malattia neurodegenerativa?
Noi attori abbiamo il dovere morale di veicolare l’informazione e di sostenere progetti che possano accrescere la consapevolezza delle persone su temi molto delicati. Accettando questa sfida, ho voluto che la gente avesse uno spunto in più su cui riflettere e potesse capire maggiormente come vive davvero un malato. Raccontare l’Alzheimer significa innanzitutto rispettare l’uomo che ne è affetto, senza mai dimenticarsi di fargli mantenere una preziosa dignità. Ho cercato di calarmi nei panni di un uomo spaventato dall’arrivo della malattia e terrorizzato dai cambiamenti in atto nella sua testa. Ho provato a immedesimarmi nella figura di un padre che non sa più chi è, non ricorda nulla se non qualche attimo della sua giovinezza, non riconosce i suoi cari, prova un dolore indescrivibile. Il mio personaggio ha paura di quello che è diventato, rientra a sprazzi nella realtà ma un attimo dopo cade di nuovo nel baratro.
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Come ha fatto l’attore Leo Gullotta a calarsi nei panni del protagonista? Come si è preparato?
L’interprete è colui che cerca di rappresentare qualcosa, dopo aver letto, osservato, studiato, approfondito e capito. Non si tratta solo di imparare a memoria un copione, ma cercare di trovare un’anima che non è “scritta” da nessuna parte. Lo sforzo dell’interprete è proprio questo: cercare l’anima, cercare la vita. E io ho fatto esattamente questo: mi sono informato, ho visto e rivisto le interviste realizzate dal regista Nuzzo ai medici e agli operatori sanitari. Poi ho cercato di scavare nella memoria, riportando alla luce il ricordo di un mio cognato, sul quale ho visto arrivare la malattia. Quest’uomo cominciava ad avere delle mancanze ma nessuno ci dava peso più di tanto. Abbiamo compreso che non si trattava di semplice stanchezza quando ci siamo resi conto che faticava a riconoscere le persone e la sua memoria si stava azzerando. Mi chiedeva chi fossi e quando gli dicevo “Poldino” (io mi chiamo Leopoldo), mi guardava spaventato, non sapeva chi fossi e mi urlava contro.
Cosa le ha lasciato questo personaggio?
Come ogni personaggio da 54 anni a questa parte, dal varietà al dramma, passando per la commedia, anche quest’anziano padre mi ha lasciato qualcosa dentro. Direi una lezione, una nota verso la vita. È stato come leggere un libro per approfondire un argomento.
Questo corto può servire a far capire meglio a familiari, amici e volontari cosa vive quotidianamente un malato di Alzheimer?
Io sostengo di sì. Ma il mio consiglio, soprattutto alle nuove generazioni, è quello di essere sempre curiosi, aperti al sapere e di cercare di incamerare il più possibile. Nel suo “piccolo”, anche questo progetto può lasciare qualcosa di significativo.
Chiara Caretoni
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