Conosciuta ai più per gli stereotipi ingannevoli, l’ipnosi è preceduta da una fama che non le fa onore e il suo impiego ospedaliero è spesso ignorato. Molto cinema e televisione, infatti, hanno inquinato il suo significato trasmettendo nell’immaginario collettivo l’idea di una pratica manipolatoria, capace di carpire segreti, ricondurre alle vite precedenti o manovrare le persone come burattini. Cosa c’è di vero in questo? Praticamente nulla.
L’ipnosi come pratica terapeutica induce davvero in uno stato di trance, ma non può istigare comportamenti o confessioni che non sono propri dell’individuo. «Lo stato ipnotico allarga la maglia della coscienza e della censura razionale, ma fino a un certo punto: se in stato di trance viene richiesta di fare o dire una cosa che va oltre la coscienza del paziente, lui esce dall’ipnosi, si rifiuta di proseguire» spiega Silvia Giacosa, presidente dell’Associazione Medica Italiana per lo Studio dell’Ipnosi (Amisi). Si dice “uscire” dallo stato di trance e non “svegliarsi” perché, a differenza di quanto si pensi, il paziente sotto ipnosi non dorme, ma si ritrova in uno stato modificato di coscienza che tutti possono sperimentare nella loro quotidianità.
Cosa succede a una persona quando è sotto ipnosi?
«È in uno stato di dormiveglia a cui viene accompagnata con un linguaggio familiare che lentamente rallenta e cala di tono. Il paziente è cosciente dell’ambiente esterno e dei suoi stimoli, ma, a meno che questi non siano sospetti, non ha interesse a rispondere, esattamente come quando stiamo per addormentarci o quando ci isoliamo perché siamo concentrati. In questa situazione l’attività cerebrale è meno razionale, perché le aree logiche lasciano spazio a quelle analogiche, dove hanno sede le reazioni emotive non mediate dalla ragione».
Quando finisce lo stato di ipnosi il paziente ricorda tutto ciò che è successo?
«Dipende. Nello stato di dormi-veglia in cui si trova il paziente si verifica una fluttuazione a onda della consapevolezza dell’attenzione. Quindi il paziente ricorda i momenti in cui la sua attenzione cosciente è alta, e non ricorda i momenti in cui è più bassa».
L’ipnosi di cui parla la dottoressa Giacosa appartiene al modello di Milton Erikson ed è utilizzata per aiutare il paziente a risolvere problemi psicologici, come ansie, attacchi di panico, fobie o disturbi alimentari. In ambito ospedaliero, però, viene anche utilizzata per affrontare il dolore, sia cronico che acuto, ed è su questa sua applicazione specifica che si è concentrato l’incontro promosso da Amisi alla Casa della Psicologia di Milano il 27 settembre.
Come agisce la psicoterapia ipnotica nella cura del dolore?
«Ci sono due vie diverse: l’ipnosi come tecnica diretta per l’induzione di uno stato mentale oppure l’ipnosi per veicolare le parole del terapeuta all’interno di un percorso psicoterapeutico. La prima aiuta la persona a utilizzare una manovra mentale anti-dolorifica naturale, cioè la dissociazione dalla realtà. Durante un trauma o un dolore acuto, la nostra mente si stacca dal corpo per isolarsi dalla sofferenza, ovvero blocca la trasmissione delle afferenze dolorose dal talamo (la parte emozionale del cervello) alla corteccia cerebrale, che le percepisce. Ciò che lo psicoterapeuta cerca di fare in condizioni di emergenza è aiutare la persona che sta vivendo il trauma a mantenere la mente distaccata dal dolore il più possibile».
Nel caso del percorso psicoterapeutico invece?
«In questo caso cerchiamo di instaurare un rapporto di fiducia con il paziente, che ci permette di utilizzare la sua parte emozionale-immaginativa per ristrutturare il pensiero di sé che lo fa soffrire. L’obiettivo è circoscrivere la sofferenza, accoglierla e limitarla. Spesso, quando abbiamo un dolore forte (per esempio ai denti), non riusciamo a distinguere da dove esso provenga: la percezione è confusa e il campo del dolore è allargato. Attraverso l’ipnosi si riesce a individuare l’origine del male e, circoscrivendolo, a far diminuire la sua intensità e lo stato ansioso che il dolore costante genera».
Considerando che in numerosi ospedali italiani l’accesso all’epidurale non è sempre semplice, questa terapia è impiegata in modo efficace anche nel trattamento dei dolori del parto. Come agisce?
«Il percorso psicoterapeutico prevede una seduta a settimana negli ultimi due mesi che precedono il parto. Per motivi culturali e religiosi, molte donne sentono la necessità di affrontare i dolori del parto, ma come tutte le femmine di mammifero, anche noi siamo in grado di gestirli in modo naturale. Fisiologicamente, infatti, il dolore del parto ha un apice di soli 10 secondi. Durante queste sedute insegniamo alla donna a focalizzare l’attenzione sulla sensazione dolorosa, a percepire il suo crescere, il suo apice e infine il suo decrescere. La paziente impara da sola a entrare e uscire dallo stato di trance ad ogni contrazione, grazie a un segnale preciso, come per esempio la chiusura del pugno. Nel momento in cui sente arrivare la contrazione, la donna entra in trance, per poi uscirne in attesa della successiva fino ad arrivare all’apice. Dove la concentrazione non è sufficiente a sopportare la sofferenza acuta di quei 10 secondi, esiste un’altra manovra anti-dolorifica, che è quella di trattenere il respiro, un riflesso naturale che abbiamo quando prendiamo una botta o ci facciamo male».
C’è bisogno di una freddezza mentale da parte della donna o dell’assistenza di uno psicoterapeuta?
«No, la motivazione della donna a partorire è sufficiente a sostenere tutto il processo. E non è necessaria la presenza dello psicoterapeuta al suo fianco, perché le trance sono momentanee e la partecipazione attiva con l’ambiente circostante. Quando la pratica è stata introdotta negli anni ’50 la donna partoriva totalmente in ipnosi, ma adesso le cose sono cambiate. La psicoterapia ipnotica è in grado di incanalare il dolore all’interno della sua soglia di accettabilità e per un tempo minimo.».
Come si comporta la terapia nei confronti del dolore cronico?
«Si capisce bene con una metafora. Il dolore cronico è un peso che dobbiamo sostenere per tutta la vita: l’ipnosi insegna a portare questa “zavorra” non in braccio o sulle spalle, dove si fa più fatica e si sente maggiormente, ma su un carrellino con due ruote, che possiamo tirare. Il peso è sempre lo stesso, perché l’ipnosi non è in grado di cancellarlo, ma non grava su tutto il nostro corpo e su tutte le nostre azioni, permettendoci di fare molto più cose. La psicoterapia ipnotica insegna a venire a patti con il proprio dolore, a riconoscerlo, accoglierlo e conviverci. In questo caso il percorso psicoterapeutico si struttura con al massimo 20 sedute».
La psicoterapia ipnotica è in grado di ridurre totalmente il ricorso ai farmaci?
«Nel caso del dolore cronico (cefalee, mal di schiena etc) in alcuni casi lo evita totalmente, in altri lo riduce del 50 per cento. Mai in percentuali minori».
Ci sono persone che non riescono a scendere a patti con il proprio dolore?
«Purtroppo non dipende dalle persone, ma dalla capacità del terapeuta a instaurare un rapporto di fiducia con il paziente. Lo psicoterapeuta deve essere empatico, solidale e soprattutto convinto e consapevole delle capacità del paziente. Solo in questo modo la terapia avrà successo, perché durante la trance il paziente si abbandona al terapeuta e lui assume un ruolo quasi genitoriale. Quanti bambini fanno il loro primo passo senza la spinta di mamma o papà?»
In quali casi la terapia viene rimborsata dal sistema sanitario nazionale?
«È possibile accedere alla psicoterapia ipnotica tramite ticket, quindi con copertura parziale da parte del sistema sanitario, se si ricorre a quei centri del dolore che ospitano al proprio interno un terapeuta specializzato».
Giulia Masoero Regis
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