La seconda ondata è arrivata, eccome, tanto da far temere ai medici che possa rivelarsi uno tsunami. Dopo l’estate del liberi tutti il Covid-19 si è ripresentato puntuale a mietere vittime in Italia e nel mondo, facendo crescere la paura contemporaneamente alla tensione sociale per i problemi economici che le misure adottate per cercare di arginarlo stanno creando. «Nonostante le rassicurazioni di alcuni esperti per i quali non sarebbe risuccesso», dice Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), «ci troviamo di nuovo a rincorrere il coronavirus, avendo sprecato tempo e risorse quando lo si poteva aggredire in anticipo». E, comunque, sempre sull’agire d’anticipo bisogna ragionare anche oggi. «Il virus è geneticamente programmato per sopravvivere, diffondersi e adattarsi a ogni condizione, mentre l’uomo ha tempi di adattabilità estremamente più lunghi. Da esseri pensanti dobbiamo, quindi, elaborare strategie per colpire il nemico là dove sarà e non inseguirlo dov’è adesso, perché non lo raggiungeremo mai. Occorre, perciò, seguire le indicazioni della scienza e delle sue scoperte di questi ultimi mesi per ridurre la possibilità di contagiarsi sia nei luoghi aperti che chiusi. Anche perché adesso sappiamo come il SARS-CoV-2 si muove».
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Negli ambienti chiusi sono fondamentali il ricambio d’aria…
Proprio SIMA ha garantito la supervisione tecnico-scientifica allo studio, realizzato dagli specialisti dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma in collaborazione con Ergon Research, sulla dispersione del virus negli ambienti chiusi. Basandosi su parametri fisici reali – quali la velocità dell’aria emessa da un colpo di tosse, la temperatura della stanza e la dimensione delle goccioline di saliva – è stata riprodotta in 3D la dispersione di goccioline (droplet) e aerosol in un Pronto Soccorso, con l’avvertenza, sottolinea Miani, che «lo stesso concetto è applicabile a qualunque ambiente indoor in cui siano presenti più persone, dalla casa – ove particolare attenzione va prestata alle stanze in cui si trascorre più tempo (la cucina e la camera dei bambini) – ai posti di lavoro, fino ai mezzi pubblici».
I risultati hanno confermato che i sistemi di condizionamento dell’aria svolgono un ruolo determinante nel controllo della dispersione di droplet e aerosol prodotti con il respiro: per la prima volta è stato documentato che il raddoppio della portata dell’aria in entrata tramite sistemi di ventilazione meccanica controllata (VMC), calcolata in metri cubi orari all’interno di una stanza chiusa, riduce la concentrazione delle particelle infette del 99,6%. Al tempo stesso, raddoppiando la velocità della VMC si genera una dispersione aerea di droplet e aerosol più rapida e a maggiori distanze rispetto a sistemi di ventilazione con portata standard o VMC spenta. A VMC spenta le persone più vicine a chi tossisce (1,76 metri nella simulazione) respirano l’11% di aria contaminata, mentre i più lontani (quattro metri) non vengono raggiunti dalla nube infetta. Con il sistema a velocità doppia si abbatte la concentrazione di contaminante e le persone più vicine ne respirano lo 0,3%, ma sono raggiunte rapidamente anche quelle più lontane, che in questo caso respirano lo 0,08% di aerosol contaminato: percentuali bassissime e sostanzialmente irrilevanti ai fini del contagio. In poche parole, sintetizza il presidente SIMA, «il ricambio d’aria negli ambienti indoor anche attraverso l’attivazione di sistemi scientificamente validati di aerazione, purificazione e ventilazione meccanica controllata (VMC), si rivela fondamentale nella diluizione del virus e nel suo trasferimento, per quanto possibile, all’esterno, ovverosia nella mitigazione degli inquinanti biologici aerodispersi presenti nelle droplet, riducendo significativamente la concentrazione dell’agente patogeno in aria».
… E il benessere termico
La ventilazione, tra l’altro, è, assieme a temperatura e umidità relativa, uno dei tre parametri ambientali che determinano il microclima e che, opportunamente graduati, garantiscono alla persona lo stato di piena soddisfazione nei confronti dell’ambiente stesso, cioè il benessere termico. «Anche questa condizione ottimale si rivela importante nelle prevenzione al Covid-19, in quanto l’aria secca rende fragili le mucose e, quindi, maggiormente a rischio di patologie respiratorie», prosegue Miani. «L’uomo, come tutti i mammiferi, è omeotermo, i valori di temperatura interna del corpo umano devono essere mantenuti entro un campo estremamente ristretto, compreso tra 35,8°C e 37,2°C. Affinché la temperatura del corpo umano possa restare costante è necessario che la quantità di calore prodotta o assunta dall’organismo sia uguale a quella trasferita all’ambiente, con un bilancio termico pari a zero. A regolare gli scambi termici tra corpo umano e ambiente e a mantenere costante la temperatura interna è una zona del cervello denominata ipotalamo: quando fa troppo caldo, questo sistema di termoregolazione innesca meccanismi in grado di cedere calore all’esterno, mentre, quando fa troppo freddo, interviene limitando la dispersione del calore. Meccanismi che, però, possono essere ostacolati dal microclima, pertanto è quanto mai necessario che l’aria indoor sia ottimale dal punto di vista delle proprietà sia fisiche (temperatura, umidità, ventilazione) sia chimiche (aria “pulita” o “fresca”)».
Lo smog è l’autostrada del virus
All’esterno, invece, l’alleato del coronavirus, oltre agli assembramenti, è lo smog, in particolare nel Nord Italia, come rilevato da SIMA nel position paper pubblicato sul British Medical Journal. «Durante l’inverno, in Pianura Padana», spiega Gianluigi De Gennaro, professore di chimica dell’ambiente all’Università di Bari, «è possibile riscontrare anche per diversi giorni consecutivi più di 150mila particelle per centimetro cubo, con un impatto sulla salute, anche in termini di mortalità evitabile, oramai acclarato dai rapporti annuali dell’Agenzia Europea per l’Ambiente. La Pianura Padana in inverno è assimilabile a un ambiente indoor con il soffitto di qualche decina di metri, dove in presenza di una grande circolazione virale le condizioni di stabilità atmosferica, il tasso di umidità e la scarsa ventilazione hanno di fatto aperto al coronavirus vere autostrade».
I dettagli dello studio li fornisce l’epidemiologo Prisco Piscitelli, vicepresidente SIMA: «Abbiamo analizzato la frequenza degli sforamenti per il Pm10 sopra i 50 microgrammi per metro cubo per tutte le province italiane, considerando il numero di centraline installate, la numerosità e densità della popolazione, tenendo conto dei pendolari giornalieri e dei turisti. Il periodo esaminato andava dal 9 al 29 febbraio, in modo da includere i 14 giorni di massima incubazione del virus e, quindi, verificare gli effetti prodotti nelle prime due settimane di ondata epidemica in Italia (24 febbraio-13 marzo 2020). Su un totale di 41 province del Nord Italia, ben 39 si collocavano nella categoria di massima frequenza di sforamenti di Pm10, mentre 62 province meridionali su 66 si situavano ai livelli più bassi d’inquinamento atmosferico. L’andamento degli sforamenti di Pm2,5 era pressoché sovrapponibile. L’effetto osservato era indipendente sia dalla numerosità sia dalla densità di popolazione. Complessivamente, gli sforamenti di Pm10 si rivelavano un significativo fattore predittivo d’infezione da Covid-19, potendo spiegare la diversa velocità di propagazione del virus nelle 110 province italiane». In questo caso è necessario anche l’intervento delle istituzioni, osserva Miani: «Le temperature degli edifici devono essere diminuite, in quanto i sistemi di riscaldamento sono i primi emettitori di particolato atmosferico, e, basandoci sui dati Arpa, occorre decretare il blocco del traffico nei periodi di maggiore superamento dei limiti previsti per le polveri sottili. Entrambe le misure devono essere attuate, perché una da sola non basterebbe».
Le mascherine più sicure sono le FFP2 e le FFP3
Negli ambienti chiusi e all’esterno, se in presenza di altre persone o con alti livelli d’inquinamento, è, poi, necessario che ognuno di noi ricorra alle misure di protezione individuale: lavaggio delle mani, uso dei guanti laddove sia opportuno, distanziamento di almeno un metro e mezzo, mascherina, la cui utilità è adesso accettata in maniera unanime anche da chi all’inizio aveva frenato, Organizzazione Mondiale della Sanità inclusa. «A tal proposito», fa chiarezza Piscitelli, «va ricordato che le mascherine “fai-da-te” in stoffa non garantiscono protezione adeguata in caso di circolazione virale nella popolazione, soprattutto al chiuso, mentre le mascherine chirurgiche bloccano solo le secrezioni in uscita con una buona efficacia e non adeguatamente eventuali goccioline infette in entrata. Questo perché il coronavirus ha delle dimensioni non superiori a 0,12 micron. Tuttavia, costituiscono un presidio minimo accettabile all’aperto e solo se indossate da tutti (ma non sufficiente all’interno di stanze o ambienti chiusi) – come imposto oggi dalla legge – con il consiglio di aumentare almeno a due metri la distanza interpersonale». Con le mascherine FFP2 e FFP3, per contro, continua l’epidemiologo, «si raggiungono livelli di protezione anche dalle secrezioni in entrata oltre che nel blocco di quelle in uscita rispettivamente del 94% e del 98% in riferimento a particelle fino a 0,6 micron, incluso, dunque, il coronavirus. Minore è l’efficacia delle FFP1, che filtrano circa il 72% delle microparticelle. Sconsigliate, invece, le mascherine con le valvole, perché consentono alle esalazioni di fuoriuscire e quindi proteggono solo chi le indossa».
Test rapidi ogni 15 giorni
Nel campo della prevenzione, attività primaria è il tracciamento, che può essere svolto solo da quei dipartimenti di prevenzione «finora», sottolinea Piscitelli, «cenerentola delle annuali ripartizioni dei budget sanitari all’interno delle Asl, in quanto destinatari di risorse per una quota che spesso non supera l’1-2% del finanziamento della sanità a livello locale, e per questo in costante calo di personale». Per gestire gli isolamenti fiduciari e tracciare i contatti diretti dei positivi ai test Covid sono necessarie, invece, copiose risorse umane. «Un’indagine epidemiologica telefonica ben fatta», spiega ancora il vicepresidente SIMA, «richiede almeno 15 minuti per ciascun caso individuato e relativi familiari da intervistare singolarmente, ciascuno dei quali a sua volta ha quasi sempre ulteriori familiari conviventi da schedare. Un caso di positività in una scuola genera, poi, un enorme carico di tracciamenti perché bisogna partire da un’intera classe (o anche più classi se ad essere positivo è un docente).
C’è, poi, l’immensa mole di lavoro di gestione amministrativa e operativa di programmazione ed esecuzione dei tamponi domiciliari e in drive through, cioè dalla propria auto (con tanto di approvvigionamento di kit e dispositivi di protezione), disposizione degli isolamenti fiduciari, comunicazione dei risultati dei test, scioglimento delle quarantene. Una mole immensa di lavoro con pochissimo personale disponibile. Inutile dire che, almeno nel nostro Paese, nelle condizioni date, con i numeri già oggi raggiunti dall’epidemia, il tracciamento rischi di saltare inevitabilmente e in alcune province o Regioni è già saltato: non sapere più dove le persone si siano contagiate significa che abbiamo perso il controllo del fenomeno epidemico».
Potrebbe, allora, essere utile una vera attività di screening della popolazione, facendo tesoro degli studi epidemiologici già pubblicati a livello internazionale. Le grandi indagini di massa coreane hanno dimostrato che questa epidemia viaggia sulle gambe dei giovani e dei lavoratori asintomatici, per arrivare a far danni maggiori negli anziani o nei soggetti fragili, in termini di necessità di cure ospedaliere e di mortalità, che in Italia raggiunge picchi elevatissimi nei maschi over 75, senza, tuttavia, risparmiare l’esperienza di duri ricoveri, in alcuni casi anche in terapia intensiva, a soggetti adulti o persino ventenni. «I test rapidi», osserva l’epidemiologo, «sono particolarmente utili per tali attività di screening allorquando il virus circola libero nella popolazione generale o si addensa in cluster localizzati (strutture sanitarie, case di riposo, piccoli centri o persino grandi città, come accaduto nelle metropoli cinesi) e sono consigliabili anche per i lavoratori di tutte le attività aperte e nelle scuole».
Esistono diverse metodiche in grado di garantire la rapidità che non è possibile ottenere dagli ormai famosi tamponi molecolari (PCR) e che sono in grado di riscontrare frammenti di genoma del coronavirus su campione di mucosa orofaringea. Li elenca il vicepresidente SIMA: «Con la stessa metodica PCR è possibile eseguire test rapidi salivari, più pratici per il prelievo, ad esempio, nei bambini e negli scolari. Sempre su saliva si possono eseguire veloci test antigenici, i quali ricercano la presenza di proteine virali che reagiscono con gli anticorpi. La stessa metodica di ricerca di antigeni virali è eseguibile in dieci minuti anche su tamponi nasofaringei. A questa tipologia di test si affianca una grande varietà di sierologici qualitativi, eseguiti su sangue capillare con il semplice pungidito, che indicano negatività o positività, con affidabilità variabile a seconda della casa produttrice, oppure quantitativi, in grado di dosare il titolo anticorpale sviluppato in caso di infezione». Un apparente ginepraio in cui è difficile orientarsi se non si tiene ben presente il concetto che deve guidare la nostra azione: i test rapidi sono essenziali nella fase epidemica che stiamo vivendo sia per assicurare una maggiore sicurezza alla ripresa delle scuole e delle attività lavorative, sia per isolare eventuali focolai familiari o localizzati. «A tal fine, però», conclude Piscitelli, «tali test necessitano di essere ripetuti sulle stesse persone ogni 15 giorni, anche per minimizzare la possibilità di errore. Obiettivi di sicurezza e di anticipazione dell’evoluzione dell’epidemia che non possiamo raggiungere solo con i tamponi molecolari, i quali, oltre ad avere tempi più dilatati di processazione, non sono infallibili in quanto gravati da un 10% di falsi negativi».
La lattoferrina, anche per gli adulti lo scudo dei bambini
In attesa del vaccino, aggiunge Miani, «bisogna utilizzare tutte le armi che la ricerca scientifica, attraverso studi clinici e preclinici, ha messo a disposizione per ridurre il rischio di contagio e migliorare sin dai primi giorni le condizioni fisiche di chi si ammala. Penso agli integratori di lattoferrina liposomiale e al plasma iperimmune: i primi non danno alcun effetto collaterale, mentre il secondo, in attesa dei risultati dei trial clinici, potrebbe essere introdotto a uso compassionevole nelle terapie intensive per i casi più gravi». La supplementazione con lattoferrina come coadiuvante nei pazienti Covid paucisintomatici e asintomatici è il tema di uno studio condotto dalle Università romane di Tor Vergata e La Sapienza, in via di pubblicazione. Tutto è nato dalla considerazione del fatto che i bambini in linea generale hanno sintomi molto più lievi degli adulti, con rarissimi casi d’infezioni gravi. A questo punto gli scienziati si sono concentrati sul ruolo dell’immunità naturale dei giovanissimi pazienti e in particolare su una sua proteina, la lattoferrina appunto, che – già presente nel latte materno – impedisce agli agenti patogeni, quali virus, batteri e funghi, il passaggio nelle cellule della mucosa respiratoria o intestinale e contemporaneamente aumenta la risposta immunitaria sistemica all’invasione virale.
In passato è già stata studiata per i suoi potenti effetti antivirali contro la replicazione sia dell’HIV umano sia del Citomegalovirus (CMV) oltre che per l’azione inibitoria dell’infezione da Herpes simplex di tipo 1 e 2. Nel 2011, ricercatori cinesi hanno anche confermato il suo ruolo inibitorio in vitro nei confronti del virus SARS-CoV. Le evidenze scientifiche relative all’attività della lattoferrina come coadiuvante nei confronti del Covid sono numerose. Una di queste ricerche è stata avviata a pubblicazione da un team di clinici di Tor Vergata e La Sapienza sulla base di un trial clinico condotto lo scorso mese di aprile su pazienti affetti da Covid-19 paucisintomatici e asintomatici per valutare l’effetto e la sicurezza di un integratore a base di una formulazione liposomiale innovativa di lattoferrina, somministrata per uso orale e intranasale. È stata così testata per la prima volta l’attività di tale proteina nel favorire, senza effetti avversi, la graduale scomparsa dei sintomi clinici nei malati sintomatici e la negativizzazione del tampone già dopo 12 giorni dal trattamento. Lo studio in fase preliminare ha dato, in prima istanza, risultati promettenti e favorevoli ad una sperimentazione allargata, anche in sintonia con quanto riportato nell’ampia letteratura nazionale e internazionale al riguardo.
Contemporaneamente la Università di Roma La Sapienza ha verificato la qualità, la purezza e l’integrità della lattoferrina utilizzata e la sua azione antivirale, con prove in vitro che hanno rivelato come la proteina inibisca l’infezione da SARS-CoV-2 bloccando le fasi precoci dell’interazione virus-cellula. Parallelamente, è stata confermata l’azione inibitoria della lattoferrina attraverso il suo legame con spike dai colleghi bio-informatici dell’Università di Tor Vergata. Perciò la supplementazione con lattoferrina potrebbe essere suggeribile nei pazienti positivi paucisintomatici ed asintomatici. Il suo potenziale effetto contro il coronavirus potrebbe, inoltre, essere considerato anche come un’arma efficace in fase di prevenzione nel controllo del contagio. La ricerca, in linea con i principi regolatori nazionali e comunitari in tema di integratori alimentari, dovrà chiarire il ruolo della glicoproteina (LF) nell’ambito della immunità innata, proiettata negli adulti, come coadiuvante di una terapia, in attesa di un vaccino risolutore.
Una speranza dal plasma prelevato dai guariti
È, invece, in corso da maggio la sperimentazione nazionale del plasma definito iperimmune o da convalescenti Covid-19. Dopo gli ottimi risultati ottenuti sui malati nei centri di ricerca del Policlinico San Matteo di Pavia e dell’ospedale Carlo Poma di Mantova, è stato approvato dall’Istituto superiore di sanità (Iss) e dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) il protocollo Tsunami (Transfusion of convalescent plasma for the treatment of severe pneumonia due to SARS-CoV2), proposto dall’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Pisa, ma finora rallentato dalle procedure burocratiche. Il plasma iperimmune è la parte liquida del sangue prelevata dai pazienti guariti dal Covid-19 che hanno sviluppato un consistente titolo di anticorpi specifici, utili a neutralizzare il virus e a ridurne la carica virale, attraverso l’immunizzazione passiva. La sua trasfusione conferisce ai malati un’immunità passiva istantanea ma a breve termine (come avviene per l’antitetanica, prodotta con immunoglobuline umane) in quanto le immunoglobuline somministrate per via endovenosa hanno un’emivita di 72 ore e sono eliminate in tre o quattro settimane.
La stessa Unione Europea sostiene la raccolta di donazioni del plasma dai convalescenti di Covid-19, tanto da aver pubblicato un documento (Briefing on Covid-19 Convalescent Plasma in the EU), in cui si specifica come l’ipotesi che il plasma iperimmune possa aiutare i malati poggia su basi scientifiche e, anche prima della pandemia, vi erano prove della sua efficacia su altre malattie, come la Sars. In particolare la Commissione UE ha rilevato come «alcuni studi condotti su un gran numero di pazienti trasfusi indicano che gli eventi avversi associati all’utilizzo del plasma di pazienti Covid-19 convalescenti sono simili al basso livello di eventi segnalati per la trasfusione di plasma in generale».
A fronte di questa sicurezza, l’efficacia del trattamento per ora non è accertata e per questo è necessario proseguire nella ricerca in merito alle tempistiche e alla frequenza delle trasfusioni, alla selezione delle donazioni e alle analisi cui le stesse sono sottoposte. È, così, partito a settembre (e durerà 24 mesi) il progetto europeo Support-E (Supporting high-quality evaluation of Covid-19 convalescent plasma throughout Europe), che si pone come obiettivi una valutazione basata su evidenze scientifiche delle terapie a base di plasma iperimmune e il raggiungimento di una armonizzazione fra tutti gli Stati membri sull’utilizzo clinico più appropriato. Per l’Italia sono impegnati il Centro Nazionale Sangue, il Policlinico San Matteo di Pavia e l’Azienda socio sanitaria territoriale (Asst) di Mantova. Interessante notare come l’unica proposta di Union Act indirizzata dal Parlamento Europeo alla Commissione UE negli ultimi cinque anni (rivelatasi lungimirante ma ancora inattuata) – su iniziativa dell’ex eurodeputato Nicola Caputo, oggi neo-assessore all’agricoltura in Campania – riguardi proprio la promozione della raccolta e donazione di plasma a fini terapeutici nell ’UE.
La tv ti porta il medico in casa
Anche dalla tecnologia può arrivare una risposta efficace all’offensiva del Covid-19. Il contrasto a un virus come SARS-CoV-2 dall’alta trasmissibilità (contro cui nessuno possiede un’immunità pregressa, per cui siamo tutti potenzialmente contagiabili) ha fatto emergere la necessità di un incremento dell’assistenza sanitaria domiciliare, riducendo la mobilità dei pazienti così da evitare sovraffollamenti e pericolosi contatti negli ospedali o negli studi dei medici di base. La cura dei pazienti da remoto è oggi possibile grazie alla sanità digitale o eHealth (sanità in Rete), vale a dire – per usare la definizione del ministero della Salute – «l’utilizzo di strumenti basati sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per sostenere e promuovere la prevenzione, la diagnosi, il trattamento e il monitoraggio delle malattie e la gestione della salute e dello stile di vita».
Si tratta di un campo in cui gli investimenti mondiali sono in forte ascesa, come dimostrato da uno studio presentato da Corrado Panzeri, responsabile dell’InnoTech Hub di The European House-Ambrosetti, durante la prima edizione di Epocal – Expert Summit for Data Driven Precision Health, AI, Analytics & Clinical Decision Systems. Dal primo al secondo trimestre di quest’anno sono, infatti, cresciuti del 22%, raggiungendo i 5,8 miliardi di dollari, il secondo valore più alto della storia. In costante ascesa è anche l’Internet of Medical Things (IoMT, l’internet delle cose riferito al settore medico), network di sensori capaci di tracciare quasi ogni parametro del corpo umano e scambiare tutte queste informazioni tramite un sistema wireless: rispetto al valore del 2019, si prevede che la crescita per tale mercato nel prossimo decennio sarà pari a +1.070%.
Il ricorso a tali innovative Tecnologie d’informazione e comunicazione (TIC o, in inglese, Information and communication technologies, ICT) rende possibile la Telemedicina, cioè – secondo le linee d’indirizzo nazionali del nostro ministero della Salute – una modalità di erogazione di servizi di assistenza sanitaria «in situazioni in cui il professionista della salute e il paziente (o due professionisti) non si trovano nella stessa località» attraverso «la trasmissione sicura di informazioni e dati di carattere medico nella forma di testi, suoni, immagini o altre forme necessarie per la prevenzione, la diagnosi, il trattamento e il successivo controllo dei pazienti». Quindi, prestazioni che «vanno assimilate a qualunque servizio sanitario diagnostico/ terapeutico», sebbene la telemedicina «non sostituisca la prestazione sanitaria tradizionale nel rapporto personale medico-paziente, ma la integra per potenzialmente migliorare efficacia, efficienza e appropriatezza».
In poche parole: il medico dal suo studio arriva direttamente dal paziente senza che quest’ultimo debba uscire da casa sua. Un’utilità che va al di là dell’emergenza attuale, in quanto la telemedicina garantisce un’equità di accesso all’assistenza sanitaria, anche in aree lontane dai centri di riferimento; garantisce la continuità delle cure, soprattutto nel caso delle malattie croniche (patologie cardiovascolari e respiratorie croniche, cancro, diabete), migliorandone l’efficacia e riducendo il ricorso all’ospedalizzazione, compreso un minor tasso di utilizzo delle terapie intensive, tanto sotto pressione in questi mesi; la telemedicina razionalizza i processi sociosanitari contribuendo a contenere i costi del sistema sanitario. Insomma, non solo i controlli ma anche le stesse terapie diventano digitali.
«Fino a oggi la tecnologia di riferimento è sempre stata la chimica, cioè la cura associata a un farmaco, ma la rivoluzione digitale permette di curare il paziente attraverso l’informatica (i software) con o senza l’abbinamento a un farmaco», interviene Francesco Cannone, CEO della start-up Emtesys, che propone sistemi negli ambiti della telemedicina, delle terapie digitali e dei dispositivi elettromedicali con particolare attenzione alle diverse malattie croniche (sono in via di sviluppo progetti sulla nefropatia). Generalmente questi software sono app mobile, ma l’ingegnere esperto di TIC per applicazioni in ambito sanitario sottolinea come la «caratteristica essenziale della soluzione proposta deve essere la semplicità. L’utilizzabilità dei sistemi è l’elemento chiave della loro diffusione, ma quelli attualmente proposti si basano su strumenti tipici del mondo dell’informatica, pc, tablet e smartphone, che non sono, tuttavia, idonei al profilo di utenza per varie ragioni: non sono sempre presenti in tutte le case, richiedono tempi di attesa per l’avvio e spesso i pazienti più anziani – solo in Italia ci sono circa 20 milioni di over 65, molti dei quali hanno una patologia cronica o sono stati dimessi da un ospedale in seguito a un problema di salute rilevante – spesso non hanno la capacità di utilizzarli. Invece, il dispositivo onnipresente con cui tutti hanno familiarità è la televisione. Così, grazie al software di Emtesys, l’utente vedrà sullo schermo della tv quattro settori corrispondenti a quattro servizi a cui potrà accedere utilizzando semplicemente le frecce del telecomando: monitor del proprio stato di salute, pagina di prenotazione della tele-visita/teleconsulto, pagina per effettuare la tele-visita o il teleconsulto, canale tematico sulla salute e prevenzione. I dati relativi al proprio stato di salute sono raccolti e gestiti dalla piattaforma di tele-monitoraggio progettata da Emtesys per il paziente cronico e sono sempre nella disponibilità del medico tramite il servizio web della stessa piattaforma, anche durante la tele-visita per migliorarne le prestazioni».
Un marchio di garanzia
SIMA è da sempre impegnata anche nel tutelare il consumatore. Per questo è nato il Marchio SIMA VERIFIED che viene concesso solo ad Aziende i cui prodotti siano stati sottoposti a validazione scientifica da parte di Enti terzi, pubblici o privati, come laboratori di primarie università italiane o internazionali, e che abbiano superato i test di validazione e che questi attestino la reale efficacia del prodotto nel tutelare la salute umana nel rispetto dell’ambiente.
Respira sano con HYLA
Più di 30 anni fa abbiamo scoperto che l’inquinamento dell’aria indoor sarebbe stata la grande sfida del futuro. L’idea di sviluppare un purificatore d’aria per ambienti confinanti è diventata la nostra missione. Abbiamo copiato la natura cioè purificando l’aria interna solamente con acqua, come fa la natura con la pioggia ed è nato HYLA EST. Test condotti indicano che HYLA EST purifica l’aria indoor al 99,996% sia da polveri fini e VOC che da aerosol che come noto possono contenere anche inquinanti biologici. Negli anni, dal lontano 1989 ad oggi, abbiamo brevettato diversi dispositivi che esportiamo in 83 Paesi del mondo. HYLA Gmbh ha vinto molti premi, tra cui il Miglior Prodotto al Mondo nel 2017/2018 e il Marchio più Innovativo nel 2018. Recentemente, nel mese di Ottobre 2020, abbiamo ottenuto un’altro importante e autorevole riconoscimento: il Marchio SIMA VERIFIED, concesso a HYLA EST dalla Società Italiana di Medicina Ambientale a seguito di test di validazione scientifica condotti presso il Dipartimento di Chimica dell’Università degli Studi di Milano.
Ai nostri esordi volevamo dare la possibilità a chi aveva bisogno di respirare aria pulita di farlo anche in ambienti indoor ma da allora ad oggi l’inquinamento dell’aria interna è drasticamente peggiorato, tanto che oggi HYLA EST ha una mission ancora più importante: trascorriamo il 90% della nostra vita in ambienti chiusi (casa, ufficio, auto e mezzi di trasporto, palestra, ecc.) e l’aria indoor è mediamente 5 volte più inquinata di quella esterna. Nel mondo muoiono prematuramente circa 7 milioni di persone a causa dell’inquinamento atmosferico e di questi, 500mila sono bambini. HYLA EST vuole essere il dispositivo che assicura di poter vivere gli spazi chiusi purificando l’aria indoor e consentendo a tutti il miglior comfort abitativo e la migliore qualità della vita.
Levante inattiva il coronavirus
Il dispositivo per la sanificazione dell’aria Levante 250 è basato sull’unico filtro testato al mondo in grado di inattivare il 100% del SARS-Cov-2 entro 30 minuti (test eseguito dal San Raffaele di Milano). Ideale per ambienti chiusi di medie dimensioni con una portata di oltre 250 m3/h, si affianca ad una gamma prodotti, basati sulla stessa tecnologia, destinati a tutti gli ambienti: trasporti, scuole, uffici, UTA, auto, ecc. Sito: www.nanohub.it