I ricercatori di URI-Urological Research Institute del San Raffaele di Milano, guidati dai Professori Petter Hedlund e Francesco Montorsi, in collaborazione con studiosi dell’Università di Monaco (Germania) e Linkoping (Svezia), hanno dimostrato, in uno studio pubblicato su European Urology, che bloccando l’enzima regolatore del metabolismo dei cannabinoidi si riesce a modificare la funzione urinaria, ottenendo in modelli animali d’incontinenza un importante risultato terapeutico senza gli effetti collaterali a livello del sistema nervoso centrale.
É noto da tempo che alcuni pazienti, in particolare coloro che soffrono anche di sclerosi multipla, riferiscono un miglioramento dei sintomi d’incontinenza dopo l’utilizzo di marijuana, una particolare forma di “cannabis”. L’organismo animale e umano produce autonomamente molecole simili ai cannabinoidi in grado di legarsi ai recettori e modulare la risposta biologica. Il ruolo di queste sostanze endogene (definite appunto, endocannabinoidi) è fonte di numerosissimi studi soprattutto nel campo della modulazione del dolore e della risposta infiammatoria.
L’incontinenza urinaria interessa milioni di donne in tutto il mondo con un impatto drammatico sulla loro qualità della vita. In Italia si stima che circa il 13% della popolazione di sesso femminile ne soffra e che essa aumenti di frequenza con l’aumentare dell’età: ne sono affette più del 20% delle donne dopo i 60 anni e circa il 7% delle donne sotto i 30 anni. In queste pazienti, molto spesso si riscontra un quadro di cosiddetta “vescica iperattiva” che causa stimoli urinari improvvisi e non controllabili con conseguente perdita delle urine.
«Il risultato della nostra ricerca, sebbene ancora preliminare, apre la strada allo sviluppo di farmaci che, inibendo l’azione dell’enzima», afferma Francesco Montorsi, coordinatore dello studio e professore di Urologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele «potranno aiutare tante pazienti a vincere l’incontinenza urinaria e a recuperare una buona qualità di vita. E’ un risultato ancora più importante per noi ricercatori del San Raffaele di Milano perché testimonia che il lavoro per i pazienti procede con il massimo impegno ed ottenendo risultati di primissimo livello»,