L’Italia festeggia i successi dei suoi atleti alle Paralimpiadi e conta ben 28 medaglie (GUARDA LA GALLERY) quasi equamente distribuite nei tre metalli (9 oro, 8 argento e 11 bronzo). Quelle medaglie hanno i volti di Annalisa Minetti, Alessandro Zanardi, Assunta Legnante, Cecilia Camellini, Federico Morlacchi… Volti di persone. Visi che spesso non si guardano mentre li si scorge attraversare un incrocio in una grande città o attendere una mano per salire lo scalino d’accesso presente in molti negozi. Volti invisibili, celati: l’attenzione di chi guarda è attratta dai segni di una disabilità più o meno evidente, come può essere la sedia a rotelle.
Oggi quelle persone sono riuscite a salire su gradini speciali: gradini che non sono barriere architettoniche ma il podio dello sport. E poco importa se non si tratta delle luccicanti, fastose e – mi verrebbe da dire – arroganti Olimpiadi. Anzi, è forse quel non sembrare mostri sacri, irraggiungibili, ad avvicinare questi atleti alla gente. Guardate le platee degli stadi dove svolgono le gare e vi accorgerete che le sedie sono piene di spettatori paganti. Sono stati venduti tutti i 2,8 milioni di biglietti disponibili per l’evento. C’è quasi la sensazione che al senso di pietismo, vissuto per anni dai disabili, si vada lentamente sostituendo una sorta di rispetto (dovuto per le persone, ma non sempre dimostrato) e quasi di immedesimazione. Quasi ci si riflettesse in quelle donne e quegli uomini feriti nel fisico – e spesso anche nell’anima – che lottano per conquistarsi una rivincita. E che forse, già, hanno vinto solo per il fatto di essere arrivate fin là. Quasi il vedere queste imprese, permettesse a tutti noi di pensare ai propri problemi quotidiani con maggiore leggerezza.
Mi tornano in mente le sfilate degli atleti alla cerimonia di apertura, avete notato i sorrisi di queste persone, la loro voglia di scherzare e giocare davanti alle telecamere? Ripensateci. Ripensiamo alle parole di Annalisa Minetti, non vedente e bronzo paralimpico nei 1.500 metri: «Sono la dimostrazione che tutto è possibile». Come darle torto. Pensate alla sua storia di donna che verso i vent’anni perde lentamente la vista per una retinite pigmentosa scoperta tardi. Lei cantava al piano bar e, quasi per caso, partecipò a una selezione regionale di Miss Italia. Vinse! Ma il suo sogno restava il canto: «Andai dalla mamma e le dissi: vado a Miss Italia anche per dimostrare che so cantare». Arrivò settima. Ma da lì iniziò la sua carriera come cantante fino alla vittoria a Sanremo con la canzone Senza te o con te. E ora lo sport, con il terzo gradino del podio sui 1.500 metri.
Questione di volontà. La voglia incrollabile di spingersi oltre i propri limiti fisici, il desiderio di rivincita rispetto al destino guida questi atleti. E un altro esempio di questa energia viene da Alex Zanardi, oro nella handbike (con una bici dalle caratteristiche fenomenali creata apposta per lui dal Politecnico di Milano). I fan della Formula 1 lo ricorderanno ingaggiare interminabili lotte con campioni del calibro di Prost e Senna. Lui che non regalava un centimetro a nessuno e che un terribile incidente durante il finale della gara in Germania, sull’EuroSpeedway Lausitz (già teatro dell’incidente mortale di Michele Alboreto), vicino a Brandeburgo, lo privò degli arti inferiori. Era il 15 settembre, oggi sempre a settembre, a 11 anni di distanza, il destino lo consacra ancora tra i numeri uno. Come ha fatto?
Per un uomo come lui, abituato a vivere tra i protagonisti dello sport, ai vertici del mondo dei motori, l’incidente avrebbe potuto essere un colpo da cui non riprendersi. Invece a due mesi dall’intervento (arrivò in ospedale con circa un litro di sangue nel corpo a causa delle emorragie), Alex ha commosso tutta la platea che assisteva alla consegna dei premi di Autosprint: si alzò in piedi utilizzando due protesi. Era il segno della volontà del pilota di ripartire.
Volontà, questa la parola magica, che muove le montagne. Volontà che si contrappone alla pigrizia di pensiero e azione. Volontà quale motore del cambiamento. Volontà, la parola che ci hanno lasciato in dono questi atleti paralimpici.
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