Testo di Carlo Rigon,
blogger di OGGI SCIENZA
«Papà mi compri il computer? Non fa solo videogiochi, mi serve per studiare, è utile per la gestione della tua azienda e poi… ci sono i giochi educativi, che mi insegnano divertendomi!». Discorsi del genere, falsi quanto ingenui, sono ronzati nelle orecchie di tanti papà degli anni ’80, che molto spesso non avevano aziende da gestire (o che magari non le avrebbero gestite con un Commodore 64) e che guardavano con sospetto quelle nuove macchine che «attaccavano» alla televisione.
In effetti l’home computer in quei tempi remoti oltre che a giocare non serviva proprio a niente. Certo, c’erano programmi per fare un po’ di tutto, ma quasi nulla che non si potesse fare meglio a mano. E tra le altre cose c’erano i famigerati giochi educativi, il tipico regalo sbagliato della nonna a Natale. Forse non tutti i giochi educativi degli anni Ottanta erano davvero brutti, alcuni erano esperimenti coraggiosi, interessanti, intelligenti; era difficile però trovarne uno che si potesse definire davvero divertente e accattivante.
Lentamente, negli anni ’90, gli edu-game inizieranno a farsi strada nelle scuole, rivelandosi utili nel campo dell’insegnamento di varie materie (lingue su tutti) e soprattutto per gli alunni con difficoltà di apprendimento; resteranno tuttavia confinati nel settore degli strumenti didattici.
Il 2005 è l’anno della svolta. Il dottor Ryuta Kawashima, uno dei massimi esperti di neurologia in Giappone, sviluppa un videogioco per Nintendo DS che in realtà è una collezione di «giochi» (per non chiamarli esercizi). Si chiama Brain Trainer e vende in un paio di anni più di 17 milioni di copie: tante, anche perché nel conteggio non si calcolano gli innumerevoli cloni e le conversioni per altre piattaforme. È la rivincita del genere (forse sarebbe più corretto parlare di tipologia) di videogioco più bistrattato della storia. […]
Brain Trainer ha portato a un nuovo modo di vedere il videogioco, già evidente dal sottotitolo Brain Age: Train Your Brain in Minutes a Day. Il videogame viene proposto come un attrezzo ginnico per il proprio cervello, qualcosa che ci fa star meglio e vivere meglio, uno strumento che ha delle ricadute positive nella nostra vita pratica, che, in una parola, ci migliora. È quasi un oggetto magico in grado di ringiovanirci, almeno a livello neurale: è facile immaginare la soddisfazione di chi passa (ricordiamolo, nelle valutazioni del programma) da un età cerebrale di 87 anni a un’elasticità mentale da ventenne.
Seguendo la linea guida tracciata da Kawashima, un gruppo di ricercatori della Queen’s University di Belfast ha creato un software che ha un obiettivo molto ambizioso: quello cioè di migliorare la capacità di prendere decisioni nella vita reale. Il software, che si chiama World of Uncertainty, è stato studiato e sviluppato da un pool di esperti in varie discipline, tra cui il professore di statistica Philip Dawid, dell’università di Cambridge e la dottoressa Melissa Cole, informatica della Brunel University.
Per ora il gioco è solo un prototipo, e si basa sullo stesso principio di training del videogame di Ryuta Kawashima (più ci si gioca più benefici si avranno) ma rispetto a questo tocca tasti molto più delicati, specifici e complessi del cervello umano, ovvero i meccanismi di scelta. Se il Brain Trainer è una palestra generica per tutto il cervello, World of Uncertainty ha lo scopo di allenarne una delle parti più sensibili e importanti: quella che determina le nostre scelte e il nostro futuro.
Ma come funziona esattamente World of Uncertainty? In realtà, come anche Brain Trainer, è basato su un meccanismo molto intuitivo. In questo caso è il quiz a risposta multipla (alla Chi vuol essere milionario? per intenderci). Forse, a questo punto, qualcuno si aspetterà che le domande simulino situazioni critiche a cui dobbiamo dare una risposta, del tipo «la casa sta andando a fuoco: salvi il gatto, il canarino o il cane?». Invece non accade niente di tutto questo. Le domande sono di cultura generale (da «qual è la capitale dell’Egitto?» a «come si chiama il terzino della Dinamo Zagabria?»), non implicano nessuna presa di posizione o decisione.
Una presa in giro? In realtà no, perché il giocatore, oltre a dare la risposta in breve tempo, deve considerare un altro, cruciale, fattore: la fiducia che ha nella correttezza della sua risposta. A ogni quiz il giocatore deve distribuire 20 punti tra due possibilità: che la sua risposta sia corretta o che sia sbagliata. Pertanto se è assolutamente sicuro della sua risposta attribuirà 20 punti alla sicurezza e 0 all’insicurezza. Viceversa se non ha idea di quale sia la risposta corretta, distribuirà in modo equo i punti, così da guadagnare punteggio sia che la sua risposta sia giusta sia che sia sbagliata. È chiaro perciò che il minimo del punteggio si avrà quando si sbaglierà completamente di valutare la propria competenza, ovvero quando si investiranno 20 punti su una risposta che poi si rivelerà sbagliata.
Quello che misura il gioco non è quindi la conoscenza degli argomenti (anche se a prima vista potrebbe apparire così), ma quanto il giocatore crede di conoscere gli argomenti. E il punteggio sarà tanto maggiore quanto più accuratamente saprà stimare, nel breve tempo dato, le sue capacità.
Il presupposto di partenza dei creatori di World of Uncertainty è abbastanza semplice: prendere una buona decisione in una circostanza critica infatti dipende dal saper valutare in tempi brevi e il più approfonditamente possibile le proprie capacità e possibilità di successo; e questo è il genere di situazioni su cui questo gioco ci vuole allenare e che – in modo meccanico e astratto – simula.
Altro aspetto da tenere in considerazione è che World of Uncertainty non va considerato solo come una forma di divertimento e di allenamento alla corretta percezione di sé ma anche, guardandolo dal punto di vista di Jyldiz Tabyldy Kyzy (Phd coinvolta nello sviluppo del gioco) e degli altri ricercatori, come «un ottimo strumento di ricerca che ci sta facendo scoprire molto sui meccanismi mentali e sui processi coinvolti nella presa di decisioni». Quasi una forma d’involontaria citizen science, quindi.
E forse questo è in effetti l’aspetto più interessante del progetto, dato che videogiochi che aumentano la capacità di prendere in fretta decisioni corrette già ce n’erano, e probabilmente fin dai tempi di Pacman e Centipede. Infatti, secondo una ricerca curata da C. Shawn Green (dipartimento di scienze cognitive dell’università di Rochester) questo sarebbe un aspetto connaturato ai videogiochi d’azione.
Lo studio, pubblicato su Current Biology, riporta i risultati di un esperimento svolto su un ampio campione di giovani (dai 18 ai 25 anni) non giocatori. I volontari sono stati divisi in due gruppi uguali: alcuni hanno giocato a giochi d’azione, gli altri invece si sono cimentati con videogiochi gestionali; ogni giocatore ha giocato 50 ore. Dopo la «terapia» sono stati effettuati sui volontari test visuali e uditivi di diverso tipo e non legati alle abilità richieste nei videogiochi. I risultati hanno messo in evidenza come le risposte di chi aveva giocato ai giochi d’azione fosse più veloce del 25% e soprattutto, avesse lo stesso grado di accuratezza di quelle di chi aveva giocato ai giochi gestionali.
Insomma, sebbene in questo caso non venga coinvolta la propria autopercezione, sembra che il classico videogame d’azione aiuti a ragionare bene e in fretta. Resta da vedere in che misura prendere decisioni in situazioni e mondi astratti e ipersemplificati possa legarsi a qualcosa come la capacità di scegliere e decidere, aspetti della vita connessi a molti altri fattori, contingenti, emotivi, sociali, culturali.
Carlo Rigon
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