In Europa ci sono già infezioni che fanno 25.000 morti l’anno e contro cui perfino la medicina moderna, con tutta la sua tecnologia e il suo armamentario farmacologico, si scopre impotente: sono le malattie da microrganismi resistenti agli antibiotici, una minaccia che non riguarda più solo i malati ricoverati in ospedale.
I dati presentati ieri a Bruxelles, in occasione della Giornata di sensibilizzazione al corretto uso degli antibiotici, da Marc Sprenger, direttore del Centro europeo di controllo delle malattie (ECDC), sono inquietanti. L’allarme riguarda vari microrganismi ma soprattutto l’aumento in Italia di ceppi di Klebsiella pneumoniae resistenti agli antibiotici.
Di per sé il batterio è una causa comune di infezioni respiratorie e delle vie urinarie, ma diventa molto minaccioso quando non risponde ai medicinali. «In Italia sta crescendo in maniera sensibile la percentuale di infezioni da Klebsiella pneumoniae che non si riescono a guarire neppure con i farmaci del gruppo del carbapenem, medicinali da somministrare in vena, in ambiente ospedaliero, che rappresentano un po’ l’ultima spiaggia in questi casi» ha spiegato l’esperto.
Fino al 2009 il problema sembrava confinato alla Grecia, dove più della metà delle klebsielle isolate in laboratorio avevano queste caratteristiche; in Italia c’erano solo segnalazioni poco più che sporadiche, inferiori al 5% del totale.
Ma in pochi mesi queste resistenze si sono diffuse a macchia d’olio, tanto che, nel 2010, i malati che non reagivano neppure a questa cura così aggressiva erano tra il 10 e il 25%. Il germe può essere trasmesso da un malato all’altro dal personale sanitario, quando questo non rispetta le indispensabili norme igieniche, ma può essere presente, senza dare disturbi, anche al di fuori dell’ospedale.
Ma perché proprio nei Paesi mediterranei, Grecia e Italia in testa, queste infezioni sono così comuni? «La prima spiegazione è da ricercare nel ricorso eccessivo e inappropriato agli antibiotici» risponde Sprenger. «I Paesi dove il problema delle resistenze è più diffuso sono anche quelli in cui questi farmaci si consumano di più, probabilmente a causa di ragioni culturali: l’errata convinzione che questi medicinali servano comunque a curare meglio e prima condizioni come raffreddori e influenza che invece, essendo provocati da virus, non sono suscettibili agli antibiotici».
Usarli quando non serve, a dosaggi inadeguati o per periodi di tempo diversi da quelli prescritti dal medico serve solo a selezionare, tra tutti i batteri che ospitiamo nel nostro organismo, quei pochi elementi casualmente mutati per essere resistenti, che così proliferano indisturbati senza dover competere con gli altri, distrutti dai medicinali. Parte della responsabilità tuttavia va anche ai medici che li prescrivono con troppa leggerezza, ai farmacisti che li vendono senza ricetta, ai veterinari e agli agricoltori che li usano in maniera impropria per tenere in salute gli animali o favorirne la crescita, pratica questa proibita in Europa dal 2006.
Un ruolo non indifferente, per quanto riguarda le infezioni ospedaliere, possono avere poi le condizioni igieniche scadenti che ancora si trovano in alcune strutture, la superficialità con cui medici e infermieri si attengono alle raccomandazioni igieniche o la scarsità di personale che impone di tagliare anche sul tempo da dedicare a lavarsi ripetutamente le mani. Ma la resistenza può dipendere anche dalla presenza di geni capaci di distruggere o inattivare il farmaco stesso e che hanno la caratteristica di trasmettersi direttamente da un batterio all’altro.
La presenza di pochi elementi resistenti è sufficiente quindi ad armare gli altri germi, prima innocui, contro gli antibiotici: è il caso del gene chiamato NDM-1 (“metallo beta lattamasi Nuova Delhi”, dalla città in cui per la prima volta è stato isolato). E siccome i germi non hanno bisogno di passaporto per passare i confini, bisogna trovare un altro modo per individuarli e neutralizzarli.
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