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Selfie-dipendenti: quando la realtà è solo quella dei social network

A chiunque piace avere un po’ di visibilità e non c’è nulla di patologico in questo. «Le paranoie nascono quando c’è un un problema di fondo» spiega l'esperto di OK Federico Tonioni

Focus a cura di Federico Tonioni, responsabile del Centro per le dipendenze da Internet del Policlinico Gemelli di Roma.

Andy Warhol, alla fine degli anni Sessanta, profetizzò che «in futuro tutti saranno famosi
per 15 minuti». Pur non immaginando l’esplosione di talent show, reality game,
blog e social network di qualche decennio dopo, l’artista ci aveva visto
giusto. Oggi Facebook, Instagram e altre piattaforme virtuali sono a portata di
chiunque desideri godere di un quarto d’ora di celebrità. È sufficiente scattarsi un selfie, scrivere un post, per dire al mondo «ci sono anch’io».

Gruppo San Donato

POTERE DEL SELFIE. A chiunque piace avere un po’ di visibilità. Non c’è nulla di patologico, anzi. Si dice che i timidi arrossiscano proprio per non passare inosservati. I social hanno cavalcato questo bisogno fisiologico inaugurando un nuovo modo di comunicare se stessi, attraverso un linguaggio preverbale, basato più sulle immagini che sulle parole. È un tipo di linguaggio prevalentemente inconscio, che si muove sul piano dell’emotività, come quello dei bambini. I selfie non sono solo autoscatti: devono comunicare qualcosa. Nelle intenzioni di chi scatta, la foto è un’esca: ci rende più interessanti, misteriosi agli occhi degli altri. Cattura l’attenzione, incuriosisce, spinge ad approfondire la conoscenza. I ragazzini non a caso non si fotografano mai per intero, ma
inquadrano un dettaglio, una parte del viso.

PARANOIE. Tuttavia, in persone adulte e sane, non basta un commento negativo a gettare nella disperazione. Le paranoie nascono quando c’è una predisposizione, un problema di fondo. Diverso il caso degli adolescenti: per natura non si piacciono, si vedono solo con gli occhi degli altri. Per loro il numero di «like» è fondamentale per costruire la fama digitale, la misura del proprio successo in società.

DIPENDENZA. La ricerca di visibilità non deve sconfinare nel patologico, nel narcisismo. Uno studio di Imr Ricerche ha rilevato che il 38% degli italiani ammette di esagerare
nell’utilizzo dei social. Il 3% trova un profondo senso di appagamento quando raccoglie tanti «Mi piace», per questo i soggetti che hanno più successo su Facebook sono quelli che rischiano di più la dipendenza. L’eccesso porta l’individuo fuori dalla realtà, in un vortice di ostentazione del sé, di sovraesposizione della propria identità che però è totalmente fittizia. Molti navigatori incalliti dichiarano di provare invidia per le foto degli altri, che
li spingono a postare immagini altrettanto piacevoli,
per dimostrare di non
essere da meno. Un sondaggio realizzato dalla Sicpre (Società italiana di chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica) rivela che sono in crescita (soprattutto nelle donne e nei giovani) le richieste di ritocchino conseguenti a un selfie riuscito male. Secondo gli specialisti il «paziente da selfie» non è insoddisfatto della sua immagine reale, ma di quella virtuale che lui o lei stesso/a si è creata e propone agli altri attraverso la Rete.

SEPARATEZZA. Il filosofo francese Pierre Zaoui insegna: «si esiste più intensamente quando non si appare». Per sottrarsi all’ansia dell’apparire a tutti i costi, è utile riscoprire il valore della separatezza, la capacità di stare bene anche da soli, riappropriandosi di
spazi e momenti da tenere solo per sé e custodire gelosamente. E quando ci tuffiamo nella Rete, siamo coerenti: non possiamo infastidirci di fronte a un commento negativo o «un’invasione di campo», se a violare la nostra privacy, il nostro diritto alla riservatezza, siamo noi stessi per primi.

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