«Miopi di tutta Italia, ascoltatemi», dice Fabio Fazio. «A 13 anni i miei occhi hanno cominciato a fare confusione: scendeva una nebbia sempre più fitta, non c’erano occhiali né lenti a contatto che potessero risolvere completamente il mio problema. Una piccola disgrazia per chi fa il mio lavoro. Finché, un giorno, sono bastati 25 minuti soltanto: miopia addio».
Ecco la confessione del presentatore televisivo a OK.
«Ho portato gli occhiali per oltre vent’anni, alternandoli in certe ore con le lenti a contatto. Poi ho deciso di riappropriarmi della mia vista, un po’ per il lavoro che faccio, ma soprattutto perché volevo rivedere il mare. Quel mare di straordinaria bellezza che in vacanza avevo intravisto solo nebulosamente e in parte gli amici mi avevano raccontato.
Ero in Polinesia. Lì, mi avevano avvertito, gli dei del mare considerano un sacrilegio perdere anche una sola sfumatura del colore di quei tramonti o la trasparenza dell’acqua che si avvicina alla riva, dal blu profondo al verde più chiaro. Così, quando sono tornato in Italia, ho preso la storica decisione, con un certo batticuore: mi sarei fatto operare. Mediamente miope (4,5 diottrie), lievemente astigmatico (1), ero la persona ideale per il laser.
Ma prima di raccontare il mio impatto con il raggio dei miracoli, come lo chiamano, devo fare una premessa: io sono un po’ all’antica, di quelli convinti che gli occhi di un essere umano siano una cosa intangibile, quasi come l’anima.
Per cui, anche se gli occhiali o le lenti potevano rappresentare il rimedio a volte fastidioso a un’ imperfezione fisica, l’idea di farmi mettere le mani dentro gli occhi mi disturbava, e non poco. Sbagliavo. Ma convincere un miope di lungo corso come me non è facile, ve lo posso assicurare.
La vita diversa dei miopi
Io, noi, i miopi insomma, ci portiamo dietro una vita diversa che segue percorsi e riti tutti suoi. La miopia di solito si scopre in età giovanissima. A me è capitato verso i 13 anni: giocando a pallone, percepivo con una frazione di secondo di ritardo il passaggio che arrivava dai compagni. Così, perdendomi il vento in piena faccia, che dalle mie parti, in Liguria, fa respirare meglio, mi sono rassegnato a mettere gli occhiali. E devo dire che, in fondo, non me ne sono fatto un gran problema.
I guai sono venuti quando ho cominciato a frequentare gli studi televisivi. Là dentro avere una buona vista è fondamentale: si deve vedere tutto, capire tutto in un attimo, indicare con uno sguardo quello che va o che non va. Tutte cose naturali, immediate, riflessi spontanei. Se ci vedi, bene. Altrimenti è un pasticcio. E io, dopo aver giurato solennemente ai miei che mi sarei laureato (in filosofia), avevo anche giurato solennemente a me stesso che avrei fatto tv.
Mi sono arreso allora alle lenti a contatto da portare in trasmissione. E ho dovuto cominciare a trafficare con il “furgoncino”, come avevo ribattezzato quel cofanetto con quattro contenitori di liquidi diversi, lo specchio, i fazzoletti di carta e loro, le odiate lenticchiette trasparenti che non riuscivo a prendere mai nel modo giusto. E che dovevo proteggere dal vento, perché anche un solo granello di polvere poteva procurare alla cornea guai seri. Uno stress… Che non finiva neppure la sera, quando dopo il rituale della “defenestrazione” delle lenti dagli occhi, ti ritrovavi con la miseria delle tue diottrie mancanti, in una stanza nebbiosa e con pochi, indistinti colori. Il mare è stato il colpo di grazia alla mia indecisione.
“Dottore, mi consiglia l’intervento?”
Ma già prima della sfida (involontaria, giuro) agli dei irati della Polinesia, avrei potuto scrivere un trattato sul disagio di un miope sul bagnasciuga: metti e togli continuamente gli occhiali, vedi e non vedi (se non la ragazza al tuo fianco), mentre gli altri ti appaiono come forme indistinte fra le quali è addirittura possibile confondere un gommone con una donna incinta. Ero comunque abbronzato e deciso quando chiesi: “Dottore, mi consiglia l’intervento?”.
Accadde una settimana dopo, alle sette del mattino, primo paziente: avevo fatto i miei calcoli come all’università, il primo non lo bocciano mai. Nessuna paura, ma dieci secondi di brivido infilando il camice me li volete concedere? Un po’ di liquido che ti scorre dagli occhi (è l’anestesia), quel microscopio che ti guarda e sembra sprofondarti nel petto, e infine il ratatatatata del laser, uno scoppiettio che se ti soffi il naso delicatamente già non lo senti, ma lì sembrava una raffica di mitragliatrice. Ancora liquido sugli occhi, un tampone che mi asciuga.
Finito. Come finito ? Non sono neppure le… Oddio, non posso guardare l’orologio. “Gliela dico io l’ora, le sette e 25. Il tempo per i due occhi”. Mi sento uno scemo, come quella bimba dell’iniezione alla tv: «Già fatto?».
Mi allungano per un tot su una poltrona letto. A casa dovrò riposare per qualche ora. Mi impongono un paio di lenti scurissime e alcune regole da seguire per la settimana successiva.
Quando ho visto me stesso nello specchio
Ma già lungo la strada, sotto braccio a mia moglie, guardando attraverso quegli occhiali che quasi mi vietavano il mondo, ho letto, e bene, le scritte sui muri. Ho smesso subito, non volevo farmi illusioni.
A casa ho dormito, mi sono svegliato con un leggero mal di testa, la giornata era stata pesante. Il mattino dopo ho visto me stesso riflesso nello specchio e, mentre allungavo le mani verso il comodino per prendere gli occhiali, ho notato l’armadio, distinto, nei particolari, anta dopo anta. E con lui le tende, le scarpe lontane… Sì, le scarpe. Non ridete, un miope può confonderle, a qualche metro di distanza, con un paio di calze appallottolate.
Ho detto addio agli occhiali con qualche rimpianto perché ormai, da oltre vent’anni, facevano quasi parte di me. Come una protesi, dicevano gli antipatici. Come amici di famiglia, li definirei io. Parenti quasi, con il loro giaciglio sul ripiano del mio comodino, pronti a farmi rivedere il mondo, ogni mattina. Quando ho visto il mattino e il mare con i miei occhi, quelli veri, ho capito la differenza. L’anno dopo sono tornato in Polinesia, a far pace per sempre con gli dei».
Fabio Fazio (testo raccolto da Romano Asuni nel giugno 2005 per OK La salute prima di tutto)