Dopo due mesi di isolamento sociale, si sta riacquisendo anche se solo in parte la possibilità di tornare a uscire di casa, vedere i congiunti e fare attività fisica, sempre nel rispetto delle distanze sociali. Diverse persone però si sentono particolarmente insicure e preferiscono prolungare il loro confinamento, perché hanno paura del futuro. “Io l’ho chiamata sindrome del guardiano del faro”. David Lazzari è presidente nazionale dell’Ordine degli psicologi e della Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia.
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Paura del futuro: cos’è la sindrome del guardiano del faro?
“Le persone si adattano a tutto, quindi anche all’isolamento. Molti di noi però hanno vissuto questa esperienza quasi come fosse una reclusione solitaria, invece che una protezione, com’era nelle intenzioni delle autorità. Ora uscire di casa può essere complicato. Viviamo queste nuove fasi con ansia e angoscia. Fare quello che prima rappresentava la nostra quotidianità ci può far paura. Fuori c’è il mostro, cioè il coronavirus. Quindi siamo combattuti tra il desiderio di libertà e il timore che l’altro sia fonte di pericolo. Un po’ quello che succede al guardiano del faro. Rimane isolato per mesi e poi deve ritornare alla vita in mezzo agli altri”.
Paura del futuro: quali sono le difficoltà di questa fase della nostra vita?
“Il problema in questa situazione è che non si chiude una parentesi e la nostra vita torna come prima. Se fossimo in una condizione di pericolo cessato, sarebbe più semplice. Torneremmo a vivere come prima, chi più velocemente, chi più lentamente. Ora invece dobbiamo ancora convivere con il virus e con la paura che Covid possa colpire noi o i nostri affetti”.
Paura del futuro: come dobbiamo comportarci?
“Serve una nuova consapevolezza, dobbiamo trovare dentro di noi un senso di equilibrio, che è la parola chiave per affrontare questa vicenda. Occorre imparare a stare in mezzo agli altri in un modo nuovo ed equilibrato. Rinchiudersi in casa non serve a nulla, anche perché non conosciamo la durata di questa crisi. Il rischio è quello che alcune persone attuino dei comportamenti simili a quelli degli Hikikomori, gli adolescenti giapponesi che si rinchiudono nella loro stanza senza uscire. In Italia se ne contano già decine di migliaia. Abbiamo bisogno di un nuovo adattamento, una nuova capacità di controllo per poterci adattare appunto a una situazione completamente nuova”.
Quali strumenti psicologici dobbiamo utilizzare?
“Noi siamo portati a comportarci secondo schemi prefissati, abitudini consolidate. Gestiamo la nostra vita con il pilota automatico. Posso fare l’esempio del neopatentato. All’inizio guida con grande prudenza, stando attento a tutto. Con il tempo, si prende consapevolezza, e guidiamo senza quasi più rendercene conto. Siamo portati ad adottare comportamenti di routine, perché questi facilitano la nostra vita. In questo momento, invece, non lo possiamo fare. Serve un grande sforzo di consapevolezza. Non dobbiamo ritornare a un tempo ritrovato, ma siamo in un tempo diverso”.
“Questa emergenza può essere vista anche come una grande opportunità dal punto di vista psicologico. Prima del coronavirus eravamo compressi in tempi frenetici e ritmi a volte eccessivi. Abbiamo avuto tempo per riflettere su cosa sia realmente importante nelle nostre vite, quali siano gli affetti a cui davvero teniamo. Si tratta di un’esperienza unica. In questo tempo diverso dobbiamo riorganizzarci psicologicamente, creando nuove abitudini e nuovi comportamenti“.
Paura del futuro: quali consigli si sente di dare?
“Il fattore tempo sarà cruciale. Più questo periodo sarà lungo, più dovremo impegnarci in un lavoro psicologico di ristrutturazione sia individuale che collettivo. Eravamo abituati a vivere senza quasi rendercene conto. Bene, ora dobbiamo gestire i nostri vissuti. Le tre parole d’ordine sono:
- aiutarsi,
- aiutare,
- farci aiutare.
- Aiutarsi, perché ognuno di noi ha risorse personali a cui attingere. Il modo in cui viviamo le cose che ci accadono attiva le emozioni e i comportamenti.
- Aiutare, attivando il nostro tasso di solidarietà. Quando aiutiamo un’altra persona, attiviamo un circuito virtuoso, che ci fa stare meglio. Se io aiuto gli altri, gli altri aiuteranno me.
- Farci aiutare, perché non dobbiamo provare vergogna a chiedere aiuto agli altri. Se abbiamo bisogno di ascolto possiamo rivolgerci agli amici e ai parenti, ma anche ai professionisti.
Anche il mondo degli psicoterapeuti in particolare, ma dei medici in generale si sta sforzando di attuare cambiamenti. La teleassistenza può essere una risposta?
“Fino a due mesi la teleassistenza era una realtà di nicchia. Alcuni studi svolti prima di questa pandemia hanno dimostrato che il tasso di efficacia tra l’intervento online o in presenza è molto simile. Ora attendiamo nuovi dati. Le due strategie comunque sono comparabili. Questo però non vale per tutti, perché ci sono pazienti che non si trovano a loro agio. Del resto una crisi come questa porta la società a ragionare sulla forma, più che sulla sostanza. Dobbiamo capire cosa sia essenziale. Le professioni e non solo la mia saranno trasformate. Siamo di fronte a un disagio psicosociale, che non è una malattia, ma richiede attenzione. Questo disagio è così diffuso da essere diventato normale, almeno statisticamente parlando. Ma anche ciò che è normale può essere dannoso. Mi ripeto: dobbiamo sviluppare le nostre risorse personali, senza aver paura di rivolgerci ai professionisti se ne sentiamo il bisogno. In conclusione in questa fase della nostra vita serve equilibrio come dicevamo prima, ma anche creatività e fantasia per rispondere a un fatto nuovo. Non possiamo usare schemi del passato per affrontare una situazione inedita come questa”.
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