Individuare le persone a maggior rischio di complicanze del coronavirus che provoca Covid-19 può essere d’importanza cruciale. Così l’IRCCS Ospedale San Raffaele ha messo a frutto i due mesi in cui ha seguito un migliaio di pazienti. In questo modo medici e ricercatori hanno identificato i soggetti a maggior rischio di sviluppare le forme più aggressive della malattia. Queste evidenze scientifiche sottolineano quanto sia necessario uno stretto coordinamento tra:
- la medicina del territorio,
- gli ospedali ad alta specializzazione per guidare la riapertura del Paese in sicurezza durante la fase II.
Questo imponente studio clinico osservazionale ha preso il via già nelle prime settimane in cui la pandemia ha raggiunto l’Italia. I ricercatori del San Raffaele volevano comprendere il più possibile della malattia, incluse quali siano le persone a maggior rischio di complicanze. Il team di ricerca è stato guidato dal professor Alberto Zangrillo, direttore delle Unità di Anestesia e Rianimazione Generale e Cardio-Toraco-Vascolare, e dal professor Fabio Ciceri, vice direttore scientifico per la ricerca clinica e primario dell’unità di Ematologia e Trapianto di Midollo.
In questo articolo
Persone a maggior rischio: quali sono i fattori di rischio più importanti?
Il gruppo di studio ha analizzato le informazioni ottenute incrociando l’analisi dei campioni biologici, la storia clinica e i dati diagnostici dei pazienti, partendo dal presupposto che questo coronavirus com’è noto non colpisce le persone allo stesso modo.
I fattori di rischio più importanti per la mortalità da Covid-19 sono chiari:
- età avanzata,
- tumore maligno in corso,
- ipertensione arteriosa,
- malattia coronarica.
Persone a maggior rischio: il ruolo dei linfociti
Le analisi di laboratorio hanno evidenziato che i pazienti a maggior rischio hanno un basso numero di linfociti nel sangue e valori elevati di alcuni marcatori che misurano la presenza di una reazione iper-infiammatoria. I linfociti sono cellule del sangue che appartengono ai globuli bianchi. Insieme ai macrofagi e ai monociti sono il centro dell’immunità acquisita. Si distinguono in:
- linfociti B, che producono anticorpi, che si legano all’antigene specifico e contribuiscono così alla sua distruzione,
- linfociti T che si sviluppano nel timo e sono a loro volta suddivisi in linfociti T helper (DD4) e linfociti T citotossici. I primi organizzano l’azione di diverse cellule dell’immunità (come linfociti B, T e macrofagi) e stimolano la produzione di anticorpi da parte dei linfociti B in risposta agli antigeni. I linfociti T citotossici invece sono in grado di distruggere altre cellule.
I pazienti a maggior rischio hanno pochi linfociti, perché esauriti da una risposta immunitaria fuori misura. Sulla base di queste evidenze scientifiche è possibile costruire un percorso preventivo di screening, presa in carico e cura dei pazienti a rischio, che preceda il ricovero.
Persone a maggior rischio: necessaria alleanza tra medicina del territorio e ospedali ad alta specializzazione
Per poter raggiungere questo risultato è necessario mettere a punto un’alleanza forte tra ospedali ad alta specializzazione, che hanno l’esperienza della malattia e i farmaci innovativi a disposizione, e la medicina del territorio, che grazie a una veloce identificazione può proteggere la popolazione di pazienti a maggior rischio di ricovero e mortalità.
Il parere degli esperti
“Attraverso gli indicatori che abbiamo individuato possiamo riconoscere in anticipo i pazienti che svilupperanno la forma più grave della patologia” spiega Fabio Ciceri. “Su questi pazienti potremo intervenire più precocemente e con maggior efficacia usando le terapie che già stiamo testando con discreto successo su pazienti in condizioni più avanzate”.
“Attraverso un programma di screening e a un intervento tempestivo, innanzitutto a domicilio, possiamo gestire la patologia in anticipo, riducendo altamente la mortalità,” afferma Alberto Zangrillo. “Per fare un esempio, concreto, un iperteso con più di 65 anni, a fronte di un episodio febbrile non deve essere lasciato a casa nella speranza di un’evoluzione positiva del quadro clinico. Deve essere tempestivamente inserito in un percorso di diagnosi, monitoraggio e cura”.
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