Unol reflusso gastroesofageo si verifica quando i succhi gastrici dello stomaco entrano in contatto con la parete dell’esofago. Questa anomalia causa bruciore dietro lo sterno, che si irradia verso le scapole o verso il collo e le orecchie, e percezione di rigurgito, con la sensazione di amaro o acido in bocca. Oltre alla terapia farmacologica, esistono fortunatamente degli interventi che fermano per sempre il reflusso. Vediamo tutto nel dettaglio.
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Settembre 2019: ritirati i farmaci a base di ranitidina
A leggere certe notizie, il nodo alla gola era venuto un po’ a tutti. Nel settembre 2019 sono stati ritirati dal commercio tutti i lotti di farmaci a base di ranitidina, uno dei principi attivi usati per combattere l’acidità di stomaco. Colpa della presenza di un’impurità potenzialmente cancerogena, la N-nitrosodimetilammina (NDMA). Il provvedimento, assunto in via cautelativa dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), spinse i pazienti a prendere d’assalto farmacie e ambulatori dei medici di famiglia.
I farmaci con ranitidina non sono ancora disponibili
Ma dopo lunghi mesi di indagini, da parte delle autorità sanitarie italiane ed europee, a che punto siamo? «Al momento non ci sono ancora novità», spiega Luca Pasina, responsabile dell’unità di farmacoterapia e appropriatezza prescrittiva dell’Istituto Mario Negri. «L’Aifa non ha pubblicato nuove comunicazioni. Sul suo sito si legge che i farmaci a base di ranitidina non sono ancora disponibili, ma nessuno sa se e quando saranno rimessi in commercio. A medici e pazienti non resta che ricorrere alle terapie alternative, ovvero gli inibitori di pompa protonica».
Gli inibitori di pompa protonica
Gli inibitori di pompa protonica sono l’altra classe di farmaci impiegati (anche) per trattare il reflusso. Terminano in -prazolo: omeprazolo, lansoprazolo, pantoprazolo, esomeprazolo e rabeprazolo. Negli ultimi mesi, però, si sono susseguite notizie quanto meno contraddittorie riferite a studi scientifici sulla sicurezza di queste molecole assunte per periodi prolungati.
Uno studio getta ombre sugli inibitori di pompa protonica
A far balzare tutti sulla sedia è stata una ricerca pubblicata sul prestigioso British Medical Journal dalla Washington University School of Medicine, in collaborazione con il Veterans Affairs St. Louis Health Care System. Passando in rassegna le cartelle cliniche di oltre 200.000 persone monitorate per dieci anni, i ricercatori avrebbero scoperto che l’uso prolungato degli inibitori di pompa protonica (PPI) si associa a un piccolo aumento della mortalità dovuta a malattie cardiovascolari, problemi renali cronici e tumori gastrointestinali. Il rischio sarebbe proporzionale alla durata della terapia, anche se assunta a basso dosaggio.
Prendere inibitori di pompa protonica comporta rischi a breve e lungo termine
Ma allora di chi ci possiamo fidare? «Se andiamo a leggere le revisioni che passano in rassegna più studi condotti su questi farmaci, scopriamo che ci sono dati solidi per quanto riguarda gli eventi avversi che si manifestano nelle prime settimane di terapia. La riduzione dell’acidità gastrica favorisce l’attecchimento di microrganismi patogeni, aumentando la probabilità di polmoniti, infezioni da Clostridium difficile, salmonella e altre infezioni gastrointestinali», sottolinea l’esperto del Mario Negri. «Per quanto riguarda invece i rischi a lungo termine, i dati indicano una maggiore probabilità di sviluppare osteoporosi, insufficienza renale e deficit nell’assorbimento di micronutrienti come vitamina B12, ferro e magnesio».
Gli inibitori di pompa protonica si possono prendere per periodi limitati
Per scampare questi pericoli non resta che assumere i gastroprotettori solo seguendo diligentemente le indicazioni riportate nel foglietto illustrativo. Chi soffre di reflusso dovrebbe usare questi farmaci per un periodo massimo di 4-8 settimane nella fase acuta, riprendendoli solo a cicli in caso di ricomparsa dei sintomi.
Gli interventi per fermare il reflusso
Il reflusso, infatti, nasce molto spesso da problemi di natura anatomica e «meccanica»: l’incontinenza del cardias, la valvola che dovrebbe impedire la risalita dei succhi acidi dallo stomaco all’esofago, e l’ernia iatale, cioè la protrusione di una porzione di stomaco sopra il diaframma. In questi casi, continua il chirurgo, la terapia farmacologica aiuta a controllare i sintomi, per evitare che il reflusso generi esofagite o addirittura sia causa predisponente all’insorgenza di una neoplasia. Se tuttavia non si agisce sulla causa primaria del disturbo non si può arrivare a una soluzione definitiva. Ecco perché la terapia con inibitori di pompa fallisce nel 20-45% dei casi. Sempre più persone, soprattutto giovani, finiscono quindi per prendere in considerazione l’opzione chirurgica nel tentativo di liberarsi dalla schiavitù dei farmaci.
Valutazione clinica prima del bisturi
Prima di ricorrere al bisturi, però, il paziente dev’essere attentamente valutato da un team multidisciplinare in un centro specializzato in fisiopatologia esofagea. Oltre alla visita e alla gastroscopia, spiega Bona, vanno eseguiti esami di secondo livello. Tra questi la manometria ad alta risoluzione, che studia la motilità della muscolatura dell’esofago, e la pH-impedenzometria, che registra gli episodi di reflusso nelle 24 ore per correlarli ai sintomi. Una volta fatto il quadro della situazione, si valutano le opzioni terapeutiche disponibili.
Procedure endoscopiche efficaci nel breve termine
Tra gli interventi per fermare il reflusso ci sono tecniche endoscopiche e di chirurgia mininvasiva laparoscopica. Alcuni centri propongono procedure endoscopiche come la tecnica chiamata Stretta, che applica energia sotto forma di radiofrequenza sulla muscolatura del cardias. Esiste inoltre la tecnica Esophyx, che consiste in una plicatura gastrica parziale eseguita però dall’interno dello stomaco attraverso l’endoscopio. Queste soluzioni, spiega lo specialista, si sono dimostrate efficaci nel breve termine. I risultati a lungo termine restano ancora non ben definiti. Per questo non sono indicate nei pazienti più giovani che invece hanno bisogno di un risultato certo e duraturo».
Chirurgia mininvasiva: la fundoplicatio secondo Nissen
L’intervento chirurgico mininvasivo, invece, viene eseguito in laparoscopia utilizzando sottili strumenti chirurgici che vengono introdotti nell’addome del paziente attraverso alcune piccole incisioni cutanee di pochi millimetri. Uno degli interventi per il reflusso è la fundoplicatio secondo Nissen, ovvero la plicatura del fondo gastrico. Consiste – spiega Bona – nel far ruotare di 360 gradi la porzione alta dello stomaco, denominata fondo gastrico, intorno all’esofago. Si crea così la plastica antireflusso. Qualche punto di sutura ed ecco che intorno al cardias si forma un «manicotto» che entra in funzione dilatandosi quando lo stomaco si riempie. Così l’esofago viene compresso impedendo il reflusso del contenuto gastrico. L’intervento – continua Bona – avviene in anestesia generale, richiede un ricovero breve di due giorni e consente ai pazienti la completa sospensione dei farmaci nell’80% dei casi con una significativa riduzione dei sintomi nella totalità dei restanti pazienti.
Chirurgia mininvasiva: la fundoplicatio secondo Toupet
Quando il reflusso gastroesofageo è invece dovuto a un’ernia iatale voluminosa (anche di 4-5 centimetri e oltre), uno degli interventi più efficaci per il reflusso è la fundoplicatio secondo Toupet. La tecnica prevede che la parete dello stomaco venga ruotata a 270 gradi dietro all’esofago. Non avvolgendolo tutto, ma lasciando libera la parete anteriore. «In questo caso gli effetti collaterali e il rischio di recidiva risultano minimi con ottimi risultati a lungo termine», precisa Bona.
Chirurgia mininvasiva con sfintere magnetico
C’è poi una terza opzione, la più innovativa e hi-tech, che prevede l’applicazione intorno all’esofago di uno sfintere magnetico. Si tratta di un collarino formato da una serie di piccoli magneti in titanio che, attraendosi fra loro, impediscono il reflusso in esofago. Questo tipo di intervento è indicato sia per il normale reflusso gastroesofageo che per l’ernia iatale, meglio se di piccole dimensioni. Il dispositivo si impianta in laparoscopia, dura nel tempo e rispetta la fisiologia e l’anatomia gastrica.
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