Come spesso accade, conta molto di più l’effetto che fa (cito Jannacci) che la notizia in sé. Sul declinare dell’agosto del 2019 i media del pianeta annunciano concordi e senza la minima parvenza di critico dubbio: contrordine, ci siamo sbagliati, il gene gay non esiste! Un giovane ricercatore italiano, lavorando con un team di genetisti del Mit, di Harward e di altre istituzioni internazionali, aveva infatti appena pubblicato un articolo sulla rivista più prestigiosa del mondo per la ricerca di base, Science, studiando un’enorme banca dati genetica di quasi mezzo milione di persone. Gli fa immediatamente eco Nature, la rivista rivale britannica di simile impatto scientifico, titolando a caratteri cubitali: «No gay gene». Ed ecco un proliferare, come funghi (più velenosi che gustosi porcini) dopo un giorno di pioggia d’autunno, di commenti, tutti rigorosamente ignari di cosa c’era veramente scritto nell’articolo originale.
In questo articolo
Il gene gay non esiste: una pioggia di commenti
Da un lato qualche sito gestito da attivisti omosessuali si lamentava che ora si tornerà a considerare l’omosessualità una scelta e non un’essenza, come l’ipotesi genetica suggeriva. Altri, sempre omosessuali, si sentivano al contrario finalmente liberati dal rischio di essere giudicati malati, appunto, di un difetto genetico. Ma la grancassa più sonora l’hanno battuta nel pianeta oscuro del conservatorismo religioso e politico che ha immediatamente preso la palla al balzo per dire: vedete che avevamo ragione, gli omosessuali sono traviati che possono essere riportati sulla retta via dell’eterosessualità attraverso le costosissime terapie «riparative» che alcuni psicologi e psichiatri eterodossi da anni propongono, nonostante la comunità scientifica internazionale ne abbia dimostrato l’inutilità e l’inadeguatezza.
Il tema diventa più politico che scientifico
Che il tema sia più politico che scientifico lo dimostra l’inusuale comportamento degli autori del recentissimo articolo scientifico di cui sto scrivendo. In contemporanea con la pubblicazione del dato sperimentale, essi stessi inaugurano un sito web assai ben curato e molto professionale, anche dal punto di vista della comunicazione, col dichiarato obiettivo di evitare fraintendimenti e polemiche. Il sito racconta, con un elegante, bellissimo (quanto, immagino, costoso) cartone animato didattico, come sia importante rispettare la diversità e la varietà dei comportamenti e degli orientamenti, e quanto la ricerca non abbia dimostrato l’esistenza del gene che fa diventare gay. Il sito proclama di essere stato vagliato da esperti della comunità LGBT. Lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e altre possibili varianti hanno concesso il loro imprimatur, quasi fosse un Sant’Uffizio rovesciato. Ma certamente il bisogno di un’approvazione formale da parte di una lobby non è frequente quando si pubblica un articolo scientifico. Nessuno di coloro che da anni producono tonnellate di robusti o controversi dati sulla genetica delle malattie psichiatriche ha mai pensato di doversi fare preventivamente approvare dalle associazioni dei pazienti o delle famiglie di questi. E non mi si ribatta che l’omosessualità non è una malattia perché è da una vita che lo insegno ai miei studenti. La verità è che quando si parla di orientamento sessuale tutti lo fanno a voce troppo alta. E troppo spesso senza scienza e conoscenza.
Negli anni 90 si pensava l’esatto opposto
Così ho rivissuto quello che accadde agli inizi degli anni 90 dello scorso secolo, quando in un laboratorio a pochi metri da quello dove lavoravo da giovane apprendista scienziato, nel tempio della ricerca planetaria, i National Institutes of Health di Bethesda, un altro genetista si era messo a studiare per la prima volta il patrimonio genetico degli omosessuali. Lì erano partiti da una certezza granitica, su cui tutti concordavano e tuttora concordano. La probabilità di essere omosessuale è molto più alta se è omosessuale il gemello geneticamente identico, minore se lo è il gemello-fratello e ancora progressivamente minore se lo è il fratello non gemello o un cugino o un fratello adottato o, infine, un estraneo. Un dato così solido non può non ispirare una ricerca genetica. Ed è ciò che accadde ai colleghi del piano di sotto che scoprirono che è altamente probabile che nel locus genico Xq28, e quindi nel cromosoma sessuale X, ci sia una variante genica nei maschi omosessuali. Anche quella volta le riviste che ospitarono i dati erano Science e Nature (Genetics) e, stranamente, anche quella volta era coinvolta una ricercatrice di origini italiane. Ma allora, specularmente al contrario di ora, i media strillarono: «Scoperto il gene gay!» e la comunità omosessuale si divise tra felici della notizia deresponsabilizzante e arrabbiati per l’etichetta apparentemente patologizzante. Così alcuni protestarono, ma molti gay si trovarono d’accordissimo con l’amministrazione repubblicana (che era appena andata al potere negli Usa anche grazie a una campagna contro le libertà civili degli omosessuali) quando bloccò il finanziamento statale alla ricerca sul cromosoma X. Cito l’episodio a fugare i dubbi di chi ancora non avesse ben chiaro che l’argomento sia così tanto mediatico-politico da aver obnubilato, ancora una volta, allora come ora, la serena e obiettiva valutazione del mero dato sperimentale.
Ieri e oggi: chi ha davvero ragione?
Ma, insomma, chi ha ragione? Se rileggo i due lavori scientifici originali devo concludere: nessuno, nelle espressioni mediatiche; entrambi, nelle evidenze scientifiche. Trent’anni fa il lavoro originale non dichiarava affatto di aver scoperto alcun gene, ma solo una variante genetica, cosa molto, ma molto diversa dal concetto di malattia. L’idea della variante genetica era (e tuttora è) molto plausibile considerando non solo i citati gemelli ma, molto banalmente, l’esperienza clinica di chi lavora anche con le persone omosessuali che, la più gran parte delle volte, rispondono alla domanda «da quando lei sa di essere omosessuale?» con un difficilmente confutabile «da sempre», raccontando allo stesso tempo la difficoltà ad ammetterlo prima con se stessi e poi in un ambiente sociale che troppo spesso è ancora segnato da un’abietta quanto patologica omofobia. Non un gene, quindi, ma una serie di eventi con una forte componente biologica, innata, intrinsecamente correlata con la personalità dell’individuo, dei quali la variante genetica è più un marcatore che una causa. Una variabile dei normalissimi geni che comunque suggerisce quanto l’omosessualità sia connaturata, esattamente quanto immaginiamo lo sia l’eterosessualità. Nessuno infatti ha mai cercato un gene etero, ma tutti pensiamo che gli eterosessuali siano tali, per così dire, connaturalmente.
Esistono 5 marker genetici dell’omosessualità
Ma torniamo alla cronaca odierna per capire cosa hanno veramente dimostrato la scorsa estate. Il modello che hanno scelto era proprio diverso da quello dei predecessori. I primi studiarono (pochi) soggetti maschi che si definivano omosessuali sulla base di una famosa scala che mise a punto uno dei più grandi sessuologi di tutti i tempi, Alfred Kinsey, che misura il grado dell’auto-definito orientamento sessuale. I secondi invece classificano il loro campione sulla base del fatto di aver avuto o meno rapporti omosessuali. Un campione forse un po’ disomogeneo, perché magari alcuni (quanti? Difficile dirlo) di quelli che avevano intrapreso relazioni con persone dello stesso sesso non avrebbero realmente voluto farlo, ma sono stati costretti o indotti ad agire così da eventi contingenti o semplicemente dal desiderio di trasgressione. Nello stesso modo possiamo immaginare che una parte (magari non proprio pochi) di coloro che avevano dichiarato di non avere avuto rapporti omosessuali in realtà li avrebbero tanto desiderati. Di questi che chiamo cripto-omosessuali ne conosco parecchi. I due gruppi sperimentali non sono risultati distinti da un singolo marcatore genetico ma da… cinque, con una variabilità notevole, probabilmente riportabile, tra l’altro, alla disomogeneità del campione che non individua orientamenti («cosa vorrei fare») univoci ma comportamenti («cosa ho fatto»). Altro che non esiste un gene gay. Esistono addirittura cinque marker genetici che si ritrovano in poco meno di una persona su tre o quattro che ha avuto rapporti omosessuali almeno una volta nella vita. Usando un tecnicismo facilmente comprensibile, gli autori concludono che il comportamento non eterosessuale non è monogenico ma poligenico. Come peraltro avviene per tutti i comportamenti complessi geneticamente influenzati. Se non è questa una evidenza che dimostra la componente biologica dell’orientamento sessuale, ditemi voi cos’è.
Impossibile “predire” l’omosessualità
Su un aspetto però bisogna dar ragione ai ricercatori contemporanei: non esiste, né è mai esistito, alcun marcatore che riesca a predire, cioè a individuare infallibilmente, l’omosessualità di una persona. Non succederà mai proprio perché il comportamento sessuale è troppo complesso e multifattoriale e non può che comprendere un gran numero di geni con quegli imprevedibili effetti che fanno dell’orientamento sessuale una naturalissima variante dettata e adattata da un solido quanto complicato hardware biologico.
L’esperienza non trasforma l’orientamento sessuale
C’è infine un’altra buffa faccenda in questa, apparentemente controversa (se leggiamo i media), ma in realtà piuttosto lineare (se andiamo ai lavori scientifici originali) vicenda. Gli autori del lavoro del 2019 confermano che, se non c’è un gene che faccia diventare omosessuali (ma dimostrano, ripeto, che esistono cinque marker genetici che si ritrovano con una frequenza statisticamente significativa in chi ha fatto l’amore con una persona del proprio sesso), allora devono essere per forza l’ambiente e l’esperienza a farlo. Questo argomento ad excludendum, avrebbero detto gli Scolastici, può apparire molto logico e potrebbe anche rivelarsi corretto, ma è inaccettabile in una prospettiva rigorosamente scientifica. A fronte di una documentazione palese e convincente di una certa presenza dei fattori biologici associati all’orientamento e al comportamento sessuale, non esiste uno straccio di esperimento prospettico o retrospettivo che dimostri invece l’effetto della cultura, o dell’esperienza, o dell’ambiente. Nessuno è mai stato capace di provare che, se succede – o non succede – una certa cosa (una vicenda, un incontro, un’educazione ecc.) nella vita di una persona, quella diverrà necessariamente etero- o omosessuale. È piuttosto strano che pochi si siano resi conto che ogni affermazione in tal senso non sia solo apodittica ma spesso cialtronesca o interessata.
Non esistono “terapie” che trasformino gli omosessuali in eterosessuali
E con questo non voglio negare l’ovvietà per cui le esperienze possano modificare i comportamenti di uomini e animali, che sono quanto di più plastico, cioè adattabile, esista. Ma dovrebbe essere altrettanto ovvio che prima di raccontare quanto questo si applichi all’omosessualità (cosa ben diversa dai comportamenti omosessuali) ce ne passa, e va comunque dimostrato col metodo scientifico, non semplicemente ipotizzato o intuito. Una cosa è certa: veri omosessuali che siano veramente diventati veri (non costretti) eterosessuali, attraverso psicoterapie e rieducazioni, non sono mai stati scientificamente descritti. E questo dovrebbe chiudere la bocca a chi vuol trarre conclusioni politicamente corrette o scorrette, tirando il camice dello scienziato da un lato o dall’altro.
Emmanuele A. Jannini
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