Mangiare fritto tutti i giorni fa male. Così male da aumentare il rischio di morte del 13 per cento, soprattutto per malattie cardiovascolari. A lanciare l’allarme uno studio americano pubblicato sulla rivista The British Medical Journal in cui sono state analizzate le abitudini alimentari di 106.999 donne in postmenopausa tra i 50 e i 79 anni. Sono state seguite per 18 anni circa, fino a febbraio 2017.
Le donne hanno compilato un questionario sulle loro abitudini alimentari in cui dovevano indicare la dimensione media della porzione di 122 alimenti, tra cui pollo, pesce e patatine fritte, tortillas e tacos. Nel calcolare i risultati, il team ha tenuto conto anche di altri fattori che influenzano la salute, come il livello di istruzione e reditto (che incide sulle scelte alimentari), la sedentarietà e la qualità generale della dieta seguita.
I risultati
Chi mangiava una o più porzioni di fritto al giorno aveva l’8% in più di rischio di morte per diverse cause e in particolare per quelle cardiache. Nello specifico, chi mangiava pollo fritto aveva un rischio maggiore del 13% di morte generale e del 12% per problemi cardiaci. Chi invece mangiava pesce fritto aveva il 7% di rischio in più di morte generale e il 13% in più per malattie del cuore. Dato che il pesce contiene sostante buone per la salute cardiovascolare, i ricercatori si aspettavano risultati migliori. Ma, a quanto pare, friggere il pesce significa trasformare una cosa buona in una dannosa. Nessun legame, invece, tra il consumo di fritto e mortalità per tumore.
Le ricerche precedenti
Anche se si tratta del primo studio osservazionale a esaminare il rapporto diretto tra consumo di cibo fritto e mortalità, altre ricerche precedenti pubblicate su The American Journal of Clinical Nutrition avevano messo in luce delle connessioni. Una del 2007 aveva dimostrato nessi tra il consumo di cibi fritti e obesità (che, di conseguenza, aumenta il rischio di diabete di tipo 2 e malattie cardiache), mentre una del 2017 aveva correlato il consumo uno-due volte al giorno di patatine fritte con un rischio maggiore di morte prematura (quasi doppio).
Olio sbagliato e alte temperature
rendono un fritto poco salutare
Il legame tra fritto e salute è dovuto al processo di frittura (quaindi dall’olio che si utilizza: leggi questo articolo per scoprire come fare un fritto il più salutare possibile). Tuttavia, lo studio americano non è stato in grado di identificare i vari tipi di oli utilizzati per friggere. Né ha identificato il tempo e i tipi di cottura. Ma negli Stati Uniti, si sa, le persone mangiano molto cibo fritto proveniente da fast food e questo è determinante, perché friggendo in casa le persone sono meno propense a riutilizzare l’olio. Cattiva abitudine che hanno invece molti ristoranti e che crea prodotti nocivi nell’olio che vengono poi assorbiti nel cibo.
La frittura ad alte temperature può infatti causare la produzione di grassi trans e altri composti nocivi chiamati “prodotti di glicazione”. I prodotti di glicazione sono sostanze che si formano quando cibi ricchi di proteine animali, come carne e pesce, sono cotti ad alte temperature.
Paese che vai, fritto che trovi
Nonostante siano relativi alle donne, i ricercatori pensano che i risultati dello studio si possano applicare anche agli uomini. I precedenti studi, infatti, non avevano messo in evidenza differenze di genere. Non è sensato, invece, estendere i dati a tutta la popolazione mondiale, dal momento che il fritto viene fatto in modalità e con materie prime differenti a seconda dei Paesi. In Spagna, ad esempio, uno studio simile a quello americano non ha mostrato connessioni tra consumo di fritto e mortalità perché la popolazione per friggere utilizza l’olio extravergine di oliva.
I limiti dello studio
Secondo alcuni nutrizionisti americani, lo studio presenta alcuni limiti, tra cui quello di non aver preso abbastanza in considerazione lo stile di vita del campione. Le donne che mangiano più fritti, infatti, tendono ad avere in generale una vita meno sana e questo andrebbe indagato. Inoltre, la dieta del campione è stata valutata all’inizio dello studio e poi considerata uguale per i successivi 18 anni di follow-up.
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