La mucopolisaccaridosi di tipo VI (detta anche malattia di Maroteaux-Lamy) è una patologia genetica rara. «A causa di un gene mutato, l’enzima arilsolfatasi B, che si occupa di degradare alcune sostanze tossiche prodotte dalle cellule, non lavora correttamente» spiega Nicola Brunetti-Pierri, professore associato di Pediatria all’Università Federico II di Napoli. «In presenza di questo mal funzionamento, le sostanze non smaltite si accumulano nelle cellule e creano un danno permanente agli organi» continua lo specialista. I genitori sono portatori sani della mutazione, mentre ciascun figlio della coppia ha il 25% di probabilità di avere questa patologia.
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Come si manifesta la mucopolisaccaridosi di tipo VI?
La mucopolisaccaridosi di tipo VI è una malattia multisistemica, cioè coinvolge diversi distretti corporei. «È caratterizzata da deformità scheletriche e articolari, bassa statura, ispessimento delle valvole cardiache e opacità corneali» avverte il pediatra. «A differenza di altre patologie, però, non vi è alcun interessamento del cervello, quindi non ci sono deficit mentali». Purtroppo questa patologia riduce l’aspettativa di vita, soprattutto per i problemi cardiologici e respiratori che può comportare.
Quando si manifesta e qual è l’incidenza?
«I primi segni della malattia possono comparire già intorno ai 2-3 anni, età nella quale i genitori potrebbero notare un difetto della crescita, un ritardo nello sviluppo psicomotorio o un ingrossamento del fegato» specifica Brunetti-Pierri. «Tuttavia queste manifestazioni possono emergere anche più tardi: tutto dipende da quant’è la funzione residua dell’enzima difettoso». L’incidenza non è mai stata calcolata in modo formale. «Non esiste un dato preciso in merito all’insorgenza di questa malattia ma si stima grossomodo che interessi una persona su un milione. In Italia sono 12-13 gli individui noti con mucopolisaccaridosi di tipo VI» afferma Brunetti-Pierri.
Come si esegue la diagnosi?
Oltre all’osservazione clinica si procede con una raccolta di urine e un prelievo del sangue «per valutare il dosaggio dell’enzima difettoso all’interno delle cellule» chiarisce il medico. «Si può fare anche una diagnosi genetica, per ricercare le mutazioni che sono responsabili del difetto».
Qual è la terapia attualmente disponibile?
Attualmente esiste una terapia disponibile per la cura di questa malattia rara? «Sì, da alcuni anni c’è una terapia, basata sull’infusione endovenosa dell’enzima arisulfatasi-B difettoso. Si tratta di un trattamento che va ripetuto almeno una volta a settimana perché l’enzima iniettato dura poco nel sangue» spiega Nicola Brunetti-Pierri. Sebbene l’infusione venga effettuata in day-hospital, la persona deve recarsi in ospedale o in un centro specializzato ogni sette giorni e ciò può costituire un limite.
Nuove frontiere: la terapia genica
Il dipartimento di Pediatria del Policlinico Federico II, in collaborazione con l’Istituto Telethon di Genetica e Medicina, ha sperimentato la terapia genica per la cura di questa malattia. «L’obiettivo è quello di fornire il gene corretto per ripristinare il ruolo dell’enzima, per evitare che le sostanze tossiche si accumulino e provochino un danno agli organi» spiega Brunetti-Pierri, responsabile della ricerca. «Per fare ciò abbiamo iniettato in due persone un virus (che non produce malattie) in grado di trasferire il gene corretto alle cellule del fegato. Una volta che queste cellule hanno ricevuto il materiale genetico, lo conservano nel proprio nucleo e producono in maniera costante l’enzima che altrimenti i pazienti non produrrebbero».
I vantaggi della terapia genica
Rispetto alla terapia enzimatica, che obbliga l’individuo a sottoporsi ad almeno un’infusione a settimana, nel caso della terapia genica l’iniezione è unica. «Con questo trattamento, inoltre, saremmo in grado di ripristinare i livelli dell’enzima difettoso nel sangue, riportandoli alla normalità. Nel caso la terapia genica venisse intrapresa già nella fase iniziale della malattia si potrebbero prevenire future complicanze: in questo modo ci auguriamo che il grado di correzione dei difetti sia migliore rispetto a quello ottenuto infondendo l’enzima» auspica il medico.
La mucopolisaccaridosi di tipo VI tra 10 anni
«Ci auguriamo innanzitutto che la terapia genica dia i risultati sperati e ora stiamo raccogliendo i dati che confermeranno o meno questa sensazione. L’aspettativa, però, è che tra una decina di anni questa malattia si possa riconoscere precocemente già con lo screening neonatale: nel caso in cui ciò accadesse, si potrebbe tempestivamente intraprendere una terapia, con un miglioramento notevole del quadro clinico e della qualità di vita delle persone» conclude lo specialista e autore della sperimentazione.