Mai trascurare la pressione alta: col passare degli anni potrebbe favorire il deterioramento della valvola del cuore che regola il passaggio del sangue dall’atrio al ventricolo sinistro, la cosiddetta mitrale, con pesanti conseguenze per la salute. A evidenziare per la prima volta questo legame è un ampio studio britannico, pubblicato su Plos Medicine dall’Università di Oxford.
La scoperta
I ricercatori hanno preso in esame ben 5,5 milioni di persone con il cuore sano e le hanno monitorate per 10 anni. Dall’analisi delle loro cartelle cliniche è emerso che l’insorgenza dell’ipertensione in età relativamente giovane si associa ad un maggior rischio di degenerazione della valvola mitralica.
Se la valvola rigurgita
In termini tecnici si parla di “rigurgito” della valvola mitralica, perché i suoi lembi “slabbrati” tendono a far rifluire il sangue in senso inverso, dal ventricolo verso l’atrio sinistro. Questa condizione diminuisce l’efficienza di pompaggio del cuore e, nei casi più gravi, può portare all’insufficienza cardiaca. Il problema viene spesso evidenziato da sintomi come fiato corto, affaticabilità, vertigini e dolori al petto.
Un nuovo scenario
Più comune negli anziani, il rigurgito mitralico è considerato come un problema degenerativo legato all’usura del tempo. Questa convinzione ha portato la ricerca biomedica a concentrarsi soprattutto sulla riparazione e sulla sostituzione della valvola, piuttosto che sulla prevenzione. I nuovi risultati ottenuti dai ricercatori di Oxford, però, sembrano aprire un nuovo scenario: la degenerazione della valvola potrebbe essere rallentata o addirittura prevenuta tenendo a bada la pressione arteriosa con dieta, esercizio fisico e farmaci antipertensivi.
Prevenire diventa possibile
«La nostra ricerca indica che questo comune e disabilitante disturbo valvolare potrebbe essere prevenibile e non una conseguenza inevitabile dell’invecchiamento, come ipotizzato finora», spiega il coordinatore dello studio, Kazem Rahimi. «Considerando il peso crescente di questa malattia valvolare, soprattutto tra gli anziani – aggiunge l’esperto – crediamo che questa scoperta possa avere implicazioni significative per la politica sanitaria e la pratica clinica nel mondo».
di Elisa Buson
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