La compassion fatigue ha un effetto negativo sul benessere di coloro che sono esposti alle esperienze traumatiche delle persone che stanno aiutando. Vediamo perché è importante riconoscere e prevenire questa condizione psicologica e come riuscire a proteggersi, continuando comunque ad assistere gli altri.
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Cos’è la compassion fatigue?
Con il termine compassion fatigue si indica l’impatto emotivo, fisico e psicologico dell’aiutare chi ha subito sofferenza, stress o traumi estremi. Chi svolge mansioni di assistenza o di aiuto può essere a rischio di compassion fatigue, anche se non tutti necessariamente la sperimentano. Tra i più coinvolti ci sono, ad esempio, medici, infermieri, operatori sanitari, psicologi e caregiver.
Segnali di compassion fatigue
I segnali a cui prestare attenzione sono piuttosto ampi e possono essere sia fisici che emotivi. Chi ne soffre potrebbe iniziare a sentirsi “insensibile” o disconnesso e percepire una riduzione della capacità di provare empatia o dell’energia per agire. Ci si può sentire impotenti di fronte alla sofferenza di un cliente o di un paziente, sopraffatti o esausti dal proprio lavoro. Di conseguenza, si potrebbe anche evitare o temere di lavorare con determinati pazienti.
Talvolta, si può arrivare a ritirarsi socialmente e distaccarsi dalle relazioni sociali. Si possono verificare oscillazioni dell’umore, ansia o depressione, difficoltà di concentrazione, mancanza di sonno, stanchezza o affaticamento. Le persone colpite potrebbero inoltre rischiare di adottare comportamenti disfunzionali in risposta allo stress, come l’abuso di sostanze, alcol o droghe.
Compassion fatigue e burnout: differenze
La compassion fatigue viene spesso identificata con il burnout con cui ha delle somiglianze e che, a sua volta, può provocare un esaurimento mentale, fisico ed emotivo. I due termini però hanno origini diverse. Il primo deriva dallo stress e dal sovraccarico lavorativo generale, mentre il secondo, più specifico, è associato al trattare con le vittime di eventi traumatici.
Come prevenirla e gestirla
Prendersi regolarmente cura di sé stessi può aiutare sia a gestire che a prevenire la compassion fatigue. Sono consigliate le abitudini di mindfulness, la meditazione, gli esercizi di respirazione e rilassamento. Come riportato dall’American Psychological Association, non bisogna sottovalutare l’importanza di avere una forte rete di supporto e di praticare l’autocompassione.
Esistono dei test di valutazione della qualità della vita professionale che possono fornire un’indicazione per capire se si sta soffrendo di compassion fatigue. Ma in caso di dubbi o se si avverte che la vita quotidiana o il proprio benessere potrebbero essere fortemente influenzati da questa condizione, è consigliabile rivolgersi ad un professionista della salute mentale per riconoscerla e individuare il percorso più adatto al caso specifico.
Compassion satisfaction
C’è una dose di soddisfazione e piacere che si prova nell’aiutare il prossimo tramite il proprio operato. Questo aspetto positivo delle professioni di cura viene definito compassion satisfaction. Poter dare un contributo e dedicarsi a chi vive in condizioni di sofferenza e stress apporta numerosi benefici ma allo stesso tempo è qualcosa che richiede risorse. Per riuscire a farlo al meglio, preservando la nostra salute psicofisica, è fondamentale non trascurare i segnali che ci dà il nostro corpo o temere di chiedere aiuto, quando se ne sente il bisogno.
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