Chiedere alle vittime di violenza se hanno fatto qualcosa per favorirla. Considerarle responsabili di quello che è successo, anziché incolpare chi ha commesso il fatto. Questo processo psicologico prende il nome di victim blaming e ha dei risvolti dannosi, anche gravi, per le persone che lo subiscono. Quali sono i motivi per cui si verifica e come si può contrastare? Lo abbiamo chiesto a Gaia Polloni, psicologa, psicoterapeuta, sessuologa clinica ed esperta in andrologia.
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Come si manifesta il victim blaming?
«Il victim blaming, dall’inglese “colpevolizzazione della vittima”, consiste nel ritenere la vittima di un crimine parzialmente o interamente responsabile dell’accaduto. Un esempio tipico del fenomeno è credere che l’abbigliamento o il comportamento di una ragazza che ha subito una violenza sessuale abbiano concorso a spingere l’aggressore ad agire. La frase più rappresentativa del victim blaming è il fin troppo celebre “se l’è cercata”: vestendosi in maniera provocante, bevendo alcol, assumendo un atteggiamento ambiguo, andando in giro la sera da sola o dando eccessive confidenze», spiega l’esperta.
Perché si colpevolizza la vittima?
«Colpevolizzare la vittima serve essenzialmente a sentirsi meno in pericolo, meno vulnerabili e meno in balia di un mondo cattivo e imprevedibile. In pratica, permette un’illusione di controllo sugli eventi. Se “non me la vado a cercare” e conduco una vita attenta e coscienziosa, allora non può succedermi nulla di male».
«Questa modalità di pensiero ci riporta a due teorie: “la teoria del mondo giusto” (Just World Hypothesis, Lerner, 1980) e “l’ipotesi dell’attribuzione difensiva” (Shaver, 1970). Secondo la prima teoria, le persone hanno bisogno di credere che vivono in un mondo in cui gli eventi negativi capitano soltanto a chi se li merita. Al contrario, chi conduce una vita prudente non incorrerà in potenziali pericoli».
«Invece, secondo l’ipotesi dell’attribuzione difensiva, gli individui elaborano le informazioni sociali al fine di cercare nessi causali per gli eventi e attribuire la responsabilità ai coinvolti. Il grado di somiglianza che le persone sentono nei confronti delle vittime influisce nella percezione di un dato evento. Più una persona si percepirà dissimile rispetto a loro e più si sentirà protetta da eventuali pericoli, poiché tale episodio a lei/lui non potrebbe mai capitare. Infatti, chi si percepisce diverso dalla vittima tende ad attribuire maggiori colpe a quest’ultima».
Victim blaming: i casi in cui è più comune
«Il victim blaming si può verificare in contesti diversi (nel mobbing sul lavoro, nel bullismo a scuola, negli scippi, nel revenge porn e anche in famiglia). I crimini in cui si riscontra più frequentemente sono le violenze sessuali e quelle domestiche. A tale proposito, ricordiamo che le vittime di queste violenze, molestie e abusi possono essere di entrambi i sessi. Quelle maschili sono davvero numerose, ma nella maggior parte dei casi rimangono invisibili e silenti. Per gli uomini spesso è ancora più difficile ammettere di aver subito un trauma, riuscire a parlarne ed esporre denuncia», specifica Gaia Polloni.
«Per quanto riguarda chi è più incline a colpevolizzare le vittime, una revisione della letteratura (Gravelin et al., 2019) ha riscontrato una preponderanza di victim blaming nella popolazione maschile. Sono comunque svariati i fattori socioculturali ed individuali che possono predisporre le persone al fenomeno. Ad esempio, diversi studi hanno dimostrato che le persone che credono fortemente nella “teoria del mondo giusto”, citata precedentemente, sembrano essere maggiormente propense al victim blaming (Pinciotti e Orcutt, 2017)».
Cos’è la vittimizzazione secondaria
«La vittimizzazione secondaria (o secondary victimization) fa riferimento alla “vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima” (Raccomandazione n.8 del 2006 del Consiglio d’Europa). Oltre all’aggressione già subita da parte del carnefice, le vittime di soprusi o crimini vengono ritenute responsabili di quanto subito, spesso proprio dalle istituzioni (magistratura, polizia, personale medico, opinione pubblica, ecc.) o dai media».
«Un esempio può essere quello di una donna che subisce una molestia o violenza sessuale che si reca presso le autorità per sporgere denuncia e viene colpevolizzata dell’accaduto, per via dell’abbigliamento indossato o dell’atteggiamento provocatorio ipotizzato. A volte, le stesse autorità che dovrebbero punire le violenze sono proprio quelle che mettono in dubbio, sottovalutano, screditano o addirittura negano quanto riportato dalla persona, ledendo così alla sua salute psichica».
Conseguenze della vittimizzazione secondaria
«Questo ribaltamento della realtà è un meccanismo subdolo che può indurre la vittima ad autocolpevolizzarsi, provare un profondo senso di vergogna e impotenza. Le conseguenze psicologiche di questo comportamento possono includere lo sviluppo di disturbi psicologici, in particolare depressivi. Così come sintomatologia post-traumatica, abuso di sostanze, isolamento sociale e comportamenti autolesivi».
Victim blaming: l’influenza del linguaggio dei media
«Il linguaggio utilizzato dai media per riportare tali episodi è fondamentale, poiché ha il potere di spostare l’attenzione sulla vittima o sull’aggressore. Una ricerca ha analizzato il potere delle parole nel manipolare il punto di vista dei lettori. In questo studio (Niemi & Young, 2016), è stato chiesto a 343 partecipanti di leggere 8 brevi racconti di 4 casi di stupri. Il sesso delle vittime e dei perpetratori variava a seconda della storia. In un racconto i protagonisti erano 1 uomo e 1 donna, in uno 2 donne e nell’altro 2 uomini».
«Per influenzare il focus, la descrizione di ogni evento è stata modificata in modo che il 75% del testo ponesse l’attenzione o sul perpetratore o sulla vittima. Dopo aver letto le 4 storie focalizzate sulla vittima e le 4 sul perpetratore, ai partecipanti è stato chiesto di giudicare il livello di responsabilità e colpa di entrambi i protagonisti. I risultati hanno dimostrato che spostando l’attenzione sull’aggressore, il livello di colpevolizzazione nei confronti della vittima diminuiva moderatamente».
«Questo conferma l’impatto, la forza, ma anche il potenziale pericolo della cattiva divulgazione. Motivo per cui sarebbe auspicabile che certe notizie venissero trasmesse focalizzandosi sugli autori dei reati»
Il victim blaming può alimentare i pregiudizi di genere
«Da un punto di vista sociale, il victim blaming, soprattutto nei crimini sessuali, rischia di alimentare stereotipi e pregiudizi di genere. Biasimare o responsabilizzare le vittime, minimizzare i danni psicofisici subiti, assolvere l’aggressore o sminuire la gravità dei fatti potrebbe normalizzare tali azioni. Si possono rafforzare credenze e comportamenti sessisti, nonché consolidare i ruoli tradizionali di genere all’interno della società. Infine, la paura stessa di essere colpevolizzate o stigmatizzate può scoraggiare le vittime dal denunciare le violenze».
L’importanza dell’educazione sociale
«Per contrastare questo fenomeno dovremmo lavorare sull’educazione sociale. Secondo il “mondo giusto” di Lerner, l’obiettivo di una buona educazione sarebbe quello di allertare le piccole donne che crescono. Renderle caute, coscienziose e attente poiché là fuori il mondo è pieno di lupi, che, se provocati, potrebbero perdere il controllo. Dunque, donne: non vestitevi scollate, non mostrate troppa pelle, non bevete e non andate in giro da sole la sera».
«A mio avviso, invece, in un mondo davvero giusto, bisognerebbe concentrarsi sul rispetto per l’altro, insegnato fin dalla giovane età e sulla colpevolizzazione e punizione degli autori dei reati, invece che sulle vittime. Questo non vuol dire non trasmettere ai nostri figli la prudenza e la consapevolezza dei potenziali pericoli odierni. Significa coltivare al contempo in loro l’empatia, la considerazione dell’altro, la capacità di ascoltarsi e ascoltare», prosegue la dottoressa.
I diversi canali per combattere il victim blaming
«Sappiamo che il nostro modo di rapportarci agli altri e di vivere le relazioni interpersonali prende forma a partire dal legame genitoriale. L’educazione ricevuta in famiglia ha un ruolo fondamentale nella crescita di un individuo. Ma anche la società, la scuola, il gruppo di pari e i media sono fattori incisivi. Per questo motivo, sarebbe cruciale che le scuole fornissero un’adeguata educazione alla sessualità e all’affettività. Si dovrebbe cercare di insegnare l’importanza del consenso, la capacità di riconoscere eventuali comportamenti impropri e il diritto di parlarne».
«Anche i media possono essere di grande aiuto nel sensibilizzare gli utenti alla condivisione dei traumi subiti e a spronarli a chiedere aiuto. Così come le help line e i centri antiviolenza possono fornire supporti concreti. Sono quindi diversi i canali attraverso cui poter combattere il victim blaming. Ognuno di noi può contribuire legittimando e conferendo dignità al dolore scaturito dalle esperienze traumatiche vissute dalle vittime, affinché possano sentirsi credute, comprese, supportate e, soprattutto, non giudicate», conclude Polloni.
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